Le tabelline di Silvia

Roma

Un codice numerico, cifre enigmatiche che celano un arcano e sondano realtà inedite. Il progetto espositivo intitolato Enter/55259 presenta al pubblico una selezione di lavori dell’artista Silvia Faieta. Le sue opere sono caratterizzate dall’utilizzo delle forme geometriche e da un forte rigore matematico che delineano in modo efficace il linguaggio espressivo dell’artista. Lo studio della numerologia, l’amore per le scienze e la razionalità delle forme compongono un vocabolario unico e originale dedito a sondare differenti dimensioni temporali. Silvia Faieta costruisce le sue sculture attraverso una metodica codificazione strutturale in cui l’interazione di elementi surreali danno vita ad eterogenee composizioni che prendono forma sotto la spinta propulsiva di un linguaggio che costruisce visioni immaginifiche. La mostra inaugura oggi sotto la curatela di Mauro Tropeano e Valeria Arnaldi negli spazi del centro culturale Elsa Morante del comune di Roma. Abbiamo incontrato l’artista per dare voce alla sua cifra espressiva, sondando le origini del suo lavoro.

Nel tuo progetto espositivo intitolato Enter presenti al pubblico una serie di opere che nascono dall’esigenza di appropriarti dello spazio. I tuoi lavori scultorei sono frutto di un impegnativo percorso artistico, da cosa è scaturito il tuo personale linguaggio espressivo? «Il codice espressivo del mio lavoro nasce dall’unione d’interessi e passioni che appartengo a settori molto diversi tra loro. La fusione tra la formazione ingegneristica, la passione per l’arte, l’interesse per la simbologia e l’esoterismo ha dato vita al linguaggio delle mie opere. Il passaggio dal disegno alla scultura, invece, è avvenuto un po’ per gioco, un po’ per sfida, per sperimentare quale sarebbe stato il risultato creativo attraverso un approccio tridimensionale. Curiosamente la mia prima opera scultorea In ludo veritas si è rivelata in tal senso profetica: giocando ho trovato la mia verità, la scultura sarebbe stata il mio nuovo strumento espressivo».

La mostra reca un sottotitolo enigmatico, una serie di numeri che in parte hanno a che fare con il tuo percorso di vita personale, quanto la numerologia ha influito all’interno dell’elaborazione della tua arte? «I numeri sono da sempre parte integrante della mia vita. Avendo avuto una formazione di tipo scientifico credo di aver subito una sorta di imprinting matematico che è stato alla base dello spostamento del mio interesse da un mondo in cui i numeri rappresentano solo una dimensione razionale, a un altro in cui divengono espressione di un universo esoterico e spirituale. I numeri riescono a rappresentare contemporaneamente la concretezza della materia e l’astrazione dello spirito, esattamente come avviene attraverso l’utilizzo del bianco e del nero nelle mie opere».

Se dovessi richiamare alla mente gli apporti visivi che hanno influenzato il tuo universo immaginifico quali nomi, influenze, correnti espressive hanno avuto un ruolo fondamentale nella tua formazione visiva? «Molti artisti hanno influenzato il mio lavoro, ma un ruolo fondamentale va riconosciuto a Hieronymus Bosch. La sua visionarietà, le sue simbologie e la cura di ogni dettaglio hanno ispirato il mio lavoro contribuendo alla creazione del mio linguaggio artistico. Spesso è un processo istintivo ricollegare le mie opere all’iconografia di Escher, ma sebbene sia uno dei miei artisti preferiti, la paternità della mia poetica va esclusivamente attribuita al pittore fiammingo».

La bicromia del bianco e nero è un tuo segno inconfondibile, una sorta di firma che lasci sulle tue opere, cosa rappresenta nel tuo lavoro la scelta di operare basandoti su questa scala cromatica ben definita? «La scelta di rappresentare il proprio mondo creativo in bianco e nero vuole essere il personale tentativo di realizzare visivamente e concettualmente un equilibrio spirituale attraverso la fusione degli opposti. Un’utopica aspirazione a un mondo di perfezione ed armonia. Le mie opere sono essenzialmente strutture del pensiero e dell’essere, un flusso di monadi in continuo movimento, quindi prive di una forma statica. Togliere il colore rappresenta il tentativo di rendere universale il mio messaggio. Il punto di vista dell’artista è, in un certo senso, filtrato dalla bicromia. Nel mio lavoro potrei dire che l’aspetto microscopico risiede nella prospettiva individuale dell’artista che è essenzialmente la forma dell’opera, mentre l’aspetto macroscopico è dovuto al contributo dell’osservatore, che è sempre libero di immaginare il mio lavoro del colore a lui più affine».

In questa contemporaneità che spesso vede gli artisti al servizio di un sistema arte che troppe volte si rivela il contenitore vuoto di espressioni linguistiche fuorvianti, quale ruolo ricopre, secondo la tua visione, l’artista nella nostra società? «Si crea per ragioni e per esigenze diverse. Alcuni artisti, ad esempio, utilizzano il proprio lavoro per veicolare messaggi sociali, altri, invece, come nel mio caso, scelgono l’arte essenzialmente come strumento di auto-analisi. Qualunque sia il target del proprio lavoro credo sia fondamentale che l’opera debba essere portatrice di un messaggio. L’artista deve essere prima di tutto un efficace comunicatore capace di rinnovare il proprio linguaggio artistico e la propria poetica rendendoli sempre attuali».

Fino al 24 gennaio, Centro culturale Elsa Morante, piazza Elsa Morante, Roma; info: http://www.centriculturali.roma.it/elsa-morante/

 

 

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