Le vie del sacro

Roma

Il giapponese Kazuyoshi Nomachi ha girato il mondo in lungo e largo fin da quando aveva venticinque anni, affascinato dai territori suggestivi ma angusti degli angoli remoti della Terra e dal rapporto che i suoi abitanti nei millenni erano riusciti a stringere con essi. Nelle lande desolate, battute dai climi meno ospitali del mondo, il fotografo è riuscito in oltre quarat’anni di viaggi a trovare e catturare la spiritualità che alberga dietro ogni albero sperduto della savana o mucca sacra dalle ossa sporgenti. Fino al 4 maggio i suoi scatti pieni di vitalità sono esposti alla Pelanda di Roma nella prima grande antologica, dal titolo Le vie del sacro, dedicata al prolifico fotografo documentarista: duecento immagini che scandiscono il percorso espositivo, articolato in sette sezioni, in cui protagonista è la sacralità dell’esistenza quotidiana. «Quando, nel 1972, scoprii il Sahara, ne fui letteralmente conquistato. Tornandoci ho percepito la sua vera natura, poco visibile, quasi fosse nascosta dietro un velo», scrive Nomachi nei testi che accompagnano gli scatti. E il deserto, con la sua maestosità e i suoi segreti, è solo uno dei soggetti ritratti da Nomachi che, nato a Mihara nel 1946, si dedica al fotogiornalismo a partire dagli anni ’70 iniziando il suo peregrinare in lungo e in largo per il mondo.

«Avevo 34 anni, nell’ottobre del 1980, quando iniziai a esplorare le terre lungo il Nilo. Nel Sudan meridionale, m’imbattei in una tribù di pastori che viveva a stretto contatto con una mandria di bestiame, come in epoche preistoriche. Dopo 32 anni, il loro stile di vita è rimasto sostanzialmente lo stesso, compresa l’abitudine di cospargersi le ceneri dello sterco dei bovini per proteggersi dagli insetti», racconta a proposito delle regioni del Nilo sottolineando la sacralità che risiede nella sinergia atavica tra uomo e natura, magistralmente cristallizzata nel singolare scatto che vede un giovane di una tribù soffiare nell’utero di una mucca per stimolare l’animale a produrre più latte. E poi il Tibet con il suo clima ostile («L’uguaglianza tra gli uomini è riconosciuta anche in virtù delle estreme condizioni ambientali del Tibet»); e l’Etiopia con i suoi molti gruppi etnici («In quelle tormentate montagne ho potuto visitare chiese rupestri e monasteri dove i fedeli continuano a porgere offerte come ai tempi della bibbia»). Dopo la grande mostra di Steve McCurry, La Pelanda ospita le suggestioni di un altro grande viaggiatore armato di macchina fotografica, nella speranza di bissare il successo di pubblico che ha portato l’esposizione dello statunitense.

Fino al 4 maggio 2014, La Pelanda, piazza Orazio Giustiniani 4, Roma. Info: www.museomacro.org

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