Se una notte d’inverno un esule

“Venuta la sera, mi ritorno in casa et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidina piena di fango et di loto, e mi metto pani reali e curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono, et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro”. Chi scrive queste righe, la sera del 10 dicembre 1513, esattamente 500 anni fa, è una delle menti più lucide e brillanti che da cinque secoli in qua abbiano calcato il suolo italico: Niccolò Machiavelli. In questa missiva all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino alla corte pontificia dove è stato appena eletto un papa mediceo, si sfoga con l’amico sulla malignità del destino, raccontandogli come passa il tempo “rinvolto entra questi pidocchi” a San Casciano. L’ex segretario della repubblica fiorentina è, da tempo, esule in patria. Persa ogni carica col ritorno dei Medici in città (ai quali inutilmente chiederà qualcosa da fare fino alla fine dei suoi giorni) è tornato nella sua casa di campagna – l’Albergaccio, come la chiama, ora rifugio di hare krishna – per passare le giornate all’osteria, giocando a carte e bestemmiando con gli operai, il mugnaio e l’oste a cui s’accompagna.

Venuta la sera, però, smette d“’ingaglioffirsi”, sveste i panni del villico e siede al suo scrittoio – come nel quadro di Stefano Ussi del 1894 – per mettere mano all’opera che più d’ogni altra lo consegnerà ai posteri, nella totale ignavia e dimenticanza dei coèvi: quell’opuscolo De principatibus di cui dà notizia all’amico. Il principe è scritto quasi tutto di getto tra l’estate e la fine di quel 1513. Serve all’ex segretario della repubblica, che fino all’anno prima era stato, di fatto, il ministro degli Esteri di Firenze nelle corti di mezza Europa, per tenersi la mente sveglia e non morire d’inedia e di dolore. Già il fatto che fosse vivo e libero era un mezzo miracolo: a febbraio era stato imprigionato e pesantemente torturato con l’accusa di tramare per il ritorno della repubblica e solo l’elezione al soglio pontificio di Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, nipote del fondatore della dinastia che aveva recuperato il regno sotto la spinta delle armi spagnole, gli avevano evitato guai peggiori grazie all’amnistia che era conseguita al papa mediceo, Leone X. Machiavelli, dunque, scrive in quell’inverno di forzata agonia morale un libretto dove affronta e smaschera il nodo del potere, quello che i gesuiti e la chiesa in generale non gli perdonerà mai d’aver disvelato: come si tiene o perde, senza imbrogli di fato e coscienza e con molti trucchi, forte della sua esperienza sul campo. Spera, con quel libretto che dedica ai Medici e insegna ai principi come tenere o conquistare un principato, di tenersi buoni i nuovi padroni, magari un incarico a corte, sia pure di secondo piano. Non sa che fra tante corbellerie commesse i principi non possono perdonargli soprattutto l’essersi dedicato a un’operazione tanto geniale quanto votata al fallimento, data la sua rivoluzionarietà rispetto ai tempi. Quella riorganizzazione della milizia repubblicana che avrebbe dovuto fare di bottai e contadini un esercito popolare da contrapporre alle milizie mercenarie, nerbo degli eserciti nobiliari e grattacapo d’ogni governo. E poi, giustamente, di lui che fa mostra di conoscerli così bene i potenti non si fidano.

Così non ci  sarà niente da fare, Machiavelli a differenza del suo conterraneo Guicciardini non riuscirà a predicare e razzolare allo stesso modo e morirà povero e solo mentre la sua creatura gli sopravviverà nel tempo – anche se stampata per la prima volta cinque anni dopo la sua morte, nel 1532 – libro da comodino di molti potenti e utile lettura a chi voglia conoscere i recessi più o meno profondi dell’animo umano nell’arte che si sarebbe detta della politica. E ancora oggi che l’antipolitica – ma forse solo l’esigenza non più rinviabile d’una diversa politica – è alle porte, il suo libro continua a far discutere e a conoscere quella fortuna imperitura negata al suo autore in vita. Dopo la giornata di studi con cui oggi il comitato fiorentino per le celebrazioni, presieduto da Valdo Spini, ha dibattuto sul Principe, diverse sono le manifestazioni del cinquecentenario, iniziate con la mostra al Vittoriano di Roma chiusa a ottobre (attualmente all’Istituto italiano di New York fino alla fine dell’anno). Alla Biblioteca nazionale di Firenze sono esposte 120 opere, da oggi al 28 febbraio, tra le quali il manoscritto autografo sull’Arte della guerra e la Tavola Doria che raffigura la leonardesca Battaglia di Anghiari. Ma sono molteplici le iniziative, al punto che l’Istituto di politica agli aggiornamenti sull’evento dedica addirittura una pagina facebook: www.facebook.com/#!/pages/Machiavelliana/164877310283803. Tra queste, anche un film diretto da Lorenzo RaveggiMachiavelli, il principe della politica, destinato a indagare, in omaggio alla spettacolarizzazione dei tempi, più i rapporti intimi del nostro che quelli con il potere. In attesa delle nuove monumentali opere promesse dalla Treccani, chi vuole saperne di più può farsi un’idea su un paio di nuove uscite: un tascabile Bompiani (196 pagine, 11 euro) di Antonio Gnoli e Gennaro Sasso: I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, e un altro agile volume edito da Marsilio, Il principe di Machiavelli e i cinque secoli della sua storia (189 pagine, 12,50 euro), col quale Giovanna Tomasello fa il punto nel suo stile asciutto e discorsivo su un archetipo della scienza politica italiana e sul tempo in cui maturò, dove l’idea d’Italia e di lingua nazionale erano di là da venire.

 

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