Elogio del cretino

Da qualche giorno è online il nuovo Wired. L’occasione ha dato la stura al neovicedirettore, Federico Ferrazza, per mettere giù un vademecum di appunti a uso e consumo degli utenti della rete: 36 regolette che vorrebbero fare il punto sul presente e il futuro dell’informazione virale e indicare ai naviganti la rotta dell’Ultima Thule del giornalismo. Se ne parliamo non è tanto per intervenire in un dibattito da addetti ai lavori, ma per i riflessi che la questione investe nei termini della fruibilità della comunicazione e, perché no, della cultura in generale. Le cose che Ferrazza – marito, padre e romanista, dicé di sé nel profilo twitter, da cinguettatore compulsivo qual è – ha imparato molti tra i suoi colleghi faticano a comprenderle, per un fatto generazionale o di mera resistenza concettuale. Eppure talune sono così ovvie da apparire obsolete nel momento stesso in cui si cliccano, condivisibilissime alla luce della quintessenza della formazione dell’informazione.

Occhio al fatturato, convergenza d’infotaiment – servizi leggeri e di servizio, appunto – trasparenza del compromesso, autonomia operativa e open day, compresenza di programmatori in redazione, accanto ai grafici e ai curatori di contenuti social, lavoro a stretto contatto di gomito col marketing e il commerciale sono tutte necessità con le quali chi quotidianamente si occupa di contenuti giornalistici e non è sulla soglia del prepensionamento deve fare i conti. Chi non si aggiorna è perduto, chi non sa dialogare con un sistemista e capire che tutto quanto ha vissuto fa parte di un mondo stracotto che non tornerà più è finito. E anche se chi a cominciato a fare questo mestiere al tempo dei dimafonisti – che non erano creature del giurassico ma si aggiravano nelle redazioni, dove il computer era di là da venire, neanche trent’anni fa – come il sottoscritto, può faticarlo a capire, se non lo fa va per ceci anzitempo. Tutto giusto, tutto (quasi) sacrosanto quel che Ferrazza dice, e non è un caso se da caporedattore è stato fatto vicedirettore dopo la dipartita (da Wired) del buon Riccardo Luna. Uno come lui ha lo sguardo lungo e l’ingegno pronto, atto a far quadrare coscienze e bilanci.

Che coi giornali – di carta, finché ci saranno, e online – si debbano fare soldi è, vivaddio, una verità che nessuno può fingere d’ignorare. Né gli editori né chi li fa. Che i giornali (di carta o d’altrove poco importa) non siano vendibili come scarpe, come insisteva a dire il compianto Tommaso Besozzi, è un’altra verità che l’onda del malsenso finge d’ignorare. Che i paletti che imbrigliano la neoinformazione alle regole del passato non abbiano più ragione d’essere è ovvio, meno ovvio che si continui a rincorrere il nuovo sul baratro che ci stiamo scavando. Se non ti aggiorni sei morto, ed è vero, ma quel che c’è dopo la morte non è il paradiso promesso, tutt’altro. Neppure il nuovo mondo, ma furbate vecchie come il mondo. Precariato e zero babà. Ma quel che è peggio è che rivendicare, come fa il buon Ferrazza, la fine d’ogni distinguo tra giornalismo e intrattenimento, tra informazione critica e mere marchette, non è solo parte del problema etico di chi confonde giornalai e giornalisti: è scavarsi la fossa in nome del nulla che verrà. E se «chi la invoca è fuori dal tempo o semplicemente un/a cretino/a», beh, spiace ma devo tessere l’elogio del cretino. Almeno lui, il cretino, ha capito che qualcuno sta segando il ramo su cui è seduto, e quel che resterà della foresta alla fine di tante ciarle sarà una enorme tabula rasa. Delle professionalità e delle intelligenze. Ma poi, che se ne faranno editori e direttori di un mondo di blogger e figurinai, senza giornalisti? Su quale ramo cinguetteranno? Valli a capire. Comunque leggete Ferrazza ma anche i commenti al suo post, altrettanto e forse più istruttivi.

www.wired.it/internet/web/2013/12/04/36-cose-che-ho-imparato-negli-ultimi-3-anni-sui-siti-di-informazione/