Immagini plurali di una metamostra

Nel corso del tempo, soprattutto recentemente, abbiamo visto rassegne fotografiche con le immagini che i fotografi hanno realizzato negli anni come documentazione delle mostre realizzate in spazi pubblici e privati, ma anche con i ritratti degli artisti e le diverse situazioni legate alle loro storie. Ne ricordiamo una in particolare, United artists of Italy, un’interessante quanto intensa panoramica sull’argomento con le opere di alcuni dei più importanti protagonisti di questa storia da Ugo Mulas, a Claudio Abate a Gianfranco Gorgoni, ma anche con figure che questa storia l’hanno toccata solo tangenzialmente come Luigi Ghirri e Gabriele Basilico. Sin qui tutto normale.

La curiosità e l’interesse della mostra di Michele Alberto Sereni, che a partire dagli anni Novanta lavora quasi esclusivamente con e sull’arte, ospitata al Centro arti visive Pescheria di Pesaro è il fatto che il contenitore e il contenuto della stessa coincidono perfettamente. Uno contiene l’altro come in un gioco di scatole cinesi. Sono infatti qui proposte le fotografie che il fotografo pesarese ha realizzato su otto grandi mostre, dedicate ad altrettanti artisti, ospitate negli spazi della Pescheria. Quelle di Luigi Carboni (2009), Paolo Icaro (2009), Giovanni Ozzola (2011), Luigi Ontani (2011), Sergio Breviario (2012), Marco Neri (2012), Eliseo Mattiacci (2013), Giovanni Termini (2013). Ci troviamo, dunque, di fronte a una serie di lavori che mettono in mostra il luogo stesso dove oggi sono proposti, ma quello che ci pare più interessante è la capacità del fotografo di porci di fronte alla genesi, al farsi a un in fieri del concetto stesso di mostra. Con un neologismo, appositamente coniato, possiamo tranquillamente affermare di trovarci di fronte a una “metamostra”, una mostra sul concetto stesso di mostra, sul suo senso più profondo, che si esprime attraverso le diverse fasi di lavoro.

Tre sono i momenti portanti, proposti da Sereni, di fronte ai quali siamo chiamati a relazionarci, momenti che analizzeremo singolarmente in seguito: il ritratto dell’artista, la fase dell’allestimento e l’inaugurazione con la partecipazione del pubblico. Nessuna delle tre fasi ci rimanda a una staticità, neppure la prima, a una finzione di qualcosa che viene appositamente realizzato per essere immortalato dalla fotografia. Così la scelta del titolo della mostra La dilatazione del tempo, in cui il passato e il presente sono in confronto diretto e continuo. La fotografia e il fotografo si pongono in una dimensione appartata, neutrale, che qui diviene portante, testimonianza unica dei momenti, delle fasi, che costituiscono l’evento mostra, con una parola che detesto usare, ma che qui funziona perfettamente. Un’operazione possibile soltanto da pochi anni, da un tempo relativamente breve, non tanto e non solo da quando la fotografia esiste, ma da quando riesce ad avere una malleabilità e un’immediatezza di gestione da parte di chi la utilizza. Quello che viene a crearsi è uno strano gioco mnemonico in cui sono storie di artisti, di opere, ma anche di chi guarda e a volte di chi non guarda, ma è ugualmente presente nello spazio espositivo.

Come scritto poc’anzi nelle immagini di Sereni non è mai staticità, se dovessimo riassumere il suo lavoro potremmo affermare, senza timore di smentita, che si tratta di una ricerca di matrice spaziale di cui l’arte e gli artisti sono i protagonisti, non assoluti tuttavia, perché un ruolo importante è quello del pubblico, di chi guarda, come nei grandi polittici della tradizione, in cui accanto alla scena sacra sono gli astanti. Qui è tutto colto nel suo farsi. Sereni non impone mai la posa, non gli interessa. Il suo è un atteggiamento di vicinanza agli artisti, a quanto sta avvenendo, il suo modo di lavorare non è certo impositivo, non vuole fare scoop. Il soggetto deve essere tranquillo, naturale, non deve sentirsi al centro dell’attenzione per dare vita a qualcosa di artefatto. Tra le immagini di Sereni che ho visto nel corso del tempo e che più mi hanno colpito, una con Ettore Spalletti, seduto sui banchi della chiesa di San Fermo a Verona. Non è dato sapere cosa stia guardando, ma è possibile immaginarlo. In quei giorni la chiesa ospitava le prove di un concerto del compositore estone Arvo Pärt, in occasione della mostra Ad lucem. L’occasione di incontro tra i due uomini, il compositore e l’artista è stata straordinaria, si è sviluppata un’intesa di forte spiritualità fatta di sguardi, di comune sentire, di poche parole. L’immagine di Sereni riesce a mettere in luce tutto questo proprio perché l’artista abruzzese non è in posa. Tutto è spontaneo, è come se Michele annullasse il suo ruolo per cogliere con lo sguardo la naturalezza degli atti.

Anche qui alla Pescheria nella mostra curata da Ludovico Pratesi, che questo testo accompagna, lo spazio costituisce per Sereni una preoccupazione portante. Per l’occasione ha, infatti, dato vita a una sorta di linea d’orizzonte, costituita dalle immagini che riprendono gli spettatori delle diverse mostre. Si tratta di una lunghissima striscia adesiva sulla quale sono stampati i volti di chi ha partecipato alle inaugurazioni delle diverse mostre, che corre lungo il perimetro dello spazio. Una testimonianza viva di quanto è stato, che continua, tuttavia, ad essere, attraverso una forma che rimanda a quella dei vecchi provini a contatto dell’era analogica. Si viene così a creare una sorta di dimensione teatrale che continua a rappresentare se stessa, chi ha guardato in passato, che è guardato a sua volta da chi guarda oggi. Ancora una volta la metafora della scatola cinese funziona. Il cuore della mostra è costituito dagli otto ritratti degli artisti. Ritratti in cui la posa non esiste, ben al di fuori della tradizione di questo linguaggio che ha accompagnato la fotografia sin dai suoi esordi. Si pensi al parigino Nadar che ha ritratto gli artisti suoi amici, suoi compagni di strada, ai quali ha aperto il suo studio di boulevard des Capucines per ospitare, nell’aprile 1874, la mostra dei refusés dal salon ufficiale che sarebbe divenuta la prima mostra della pittura impressionista.

Luigi Carboni è còlto, presente-assente, mentre trasporta un suo grande lavoro, Paolo Icaro, così come Marco Neri, Giovanni Ozzola, Giovanni Termini, mentre lavorano all’allestimento delle loro mostre. Eliseo Mattiacci è pensieroso con atteggiamento fabbrile, in mezzo ai suoi lavori. Sergio Breviario sta giocando tra le opere. L’unico ritratto costruito è quello a Luigi Ontani che suona una sorta di sax di ceramica di fronte al busto-opera di Gioacchino Rossini, da lui realizzato. Ma anche qui non si può parlare di posa in senso canonico. Certo Sereni ha dei maestri ideali, dei punti di riferimento, Claudio Abate, per certi versi, Gianfranco Gorgoni, ma mi pare si possa affermare, confortati dalla sua stessa testimonianza, che il suo punto di riferimento precipuo sia stato Ugo Mulas. Mulas che dal 1954 ha fotografato la Biennale di Venezia, Mulas che ci ha raccontato Alberto Giacometti mentre apprende di avere vinto il Gran premio della XXXI Biennale Internazionale, che ci ha raccontato il taglio di Lucio Fontana, in una situazione di strano accordo tra il fotografo e il fotografato. Come Mulas, indiretto maestro, Michele Sereni ci racconta delle storie, ci fa entrare in una dimensione, legge per noi  quanto è accaduto e ce lo rammenta.

In mostra sono anche sei grandi pannelli che ci rimandano alle storie della vita delle singole mostre, sono i materiali che gli servono per creare gli album ai quali dà vita ogni volta che si occupa della cosiddetta documentazione di una mostra. Saranno, inoltre, in mostra come una sorta di corredo fotografico altre venti immagini che raccontano altre situazioni. Tra queste un’immagine che Sereni considera come la capostipite del suo lavoro nell’arte e con l’arte, in cui sono Icaro, Mattiacci e Nagasawa, un immagine simbolica. La mostra di Pesaro è come un grande laboratorio progettuale in cui Sereni si è posto e si pone quotidianamente in relazione dialettica e di condivisione con i suoi soggetti e con il pubblico, dando vita a un pluralismo di punti di vista che costituisce un viaggio, prima di tutto suo, alla ricerca del senso dell’esistenza.

Michele Alberto Sereni, La dilatazione del tempo, a cura di Ludovico Pratesi, fino al 23 febbraio, Fondazione Pescheria-Centro arti visive, corso XI Settembre 184, Pesaro. Info: www.centroartivisivepescheria.it

testo dal catalogo Silvana editoriale, cortesia dell’editore e dell’autrice