C’era una volta un’Europa nella quale le montagne non dividevano i popoli ma li univano. In quei crocevia fatti di valli parallele che si toccavano in inattese deviazioni sull’alto dei colli le culture si mescolavano quanto le lingue che ne erano portatrici. Talvolta i conflitti strangolavano le speranze, spesso invece i commerci e gli scambi ne stimolavano di nuove. Ma soprattutto la natura, per quanto rude e sempre ostile negli inverni, si sapeva fare dolcissima nelle belle stagioni ed era protagonista perenne di un’esistenza che con lei si declinava. Il ritmo delle stagioni generava il ritmo stesso della vita, portava gli uomini a lunghe fantasie estive e a infinite meditazioni invernali attorno ai fuochi e nel tepore delle stalle. Questo era il mondo alpino fino al concludersi del medioevo, fino alla nascita degli stati moderni. Era una vastissima isola protetta tra i fragori dei conflitti che agitavano le pianure. E in quel passato si sono accumulate sensazioni arcane che si conservano recondite come i misteri celati nei ghiacciai.
Questo è il segreto di Lois Anvidalfarei. Riporta egli nella coscienza della modernità sentimenti formidabili e sensazioni lontane. E lo compie, questo suo percorso, in sintonia con la vita quotidiana che quella parte di mondo lì in alto consente di lasciar scorrere come scorrono le stagioni. L’odore del fieno da trifoglio d’altura, mescolato con le essenze alpine, permea così lentamente i gessi delle sculture e le impregna. O forse questa è solo la sensazione che ne ricava il viandante privilegiato che ha la fortuna di vederle nella grangia sopra le stalle. Ma nulla di bucolico andrà a contaminare le opere. La questione è ben più seria. Nulla di agreste. Quello spazio infinito, quelle arie terse portano a ben altra esaltazione. È l’essere umano che si misura con la dimensione della natura e dei cieli. È l’essere umano che si misura con la metafisica del divino. E così facendo rivela la sua propria dimensione, che è fisica e pulsante, viva e sofferta ben più che sofferente.
Vi fu già, all’inizio del XX secolo, un esperimento parallelo. Era quello che condusse Alberto Giacometti nel suo studio in Val Bregaglia, a Bondo. Le analogie comportamentali sono assai commoventi. Stesso studio in una grangia di legno, medesima applicazione alla concentrazione mentale. Risultati fortunatamente ben diversi. E il percorso di Giacometti era stato preceduto, in un altro edificio altrettanto poetico, da quello di Giovanni Segantini quando era in collaborazione con i Bugatti milanesi sulle porte dell’Engadina. Intrigante è sempre il percorso della ricerca antropologica sul comportamento degli artisti: consente una lettura delle loro opere in una chiava diversa da quella esclusivamente linguistica che spesso la critica e la storia dell’arte esigono. Va alla radice dei comportamenti. “On est quelqu’un quand on est de quelque part”, suggerisce un vecchio proverbio francese. E il gioco estremamente intrigante dell’arte in fase di realizzazione, quella che è contemporanea per definizione, consente questo genere d’indagine. In tedesco la parola che definisce quest’arte è assai più incisiva che nelle lingue latine. Non si parla infatti solo di Gegenwart, di contemporaneità intesa come valore oggettuale del tempo comune, ma si usa il termine ben più esistenziale di Zeitgenosse, di compagno della nostra epoca. Anvidalfarei è un compagno di strada dell’epoca sofferta che sta attraversando l’umanità d’Occidente. Ed è uno Zeitgenosse che vigila lassù, fra terre fertili, monti gloriosi e cieli quasi tangibili. Il contatto con il Supremo appare ben più immediato di quello che gli uomini faticanti nelle pianure possano immaginare.
A quel cosmo supremo si contrappone costantemente, ineluttabilmente l’immagine terrestre. L’uomo vivente è lì, straziato, sofferente, afflitto da una fisicità che non lascia tregua. E qui entra in gioco un elemento che solo la montagna può esaltare. Perché, nel fondo delle anime, il contrasto fra la fisicità umana e l’infinito poderoso della natura genera una vertigine. A questo stordimento non è sfuggito nessuno fra gli artisti che hanno osato la sfida. Ferdinand Hodler cercò la salvezza nel simbolismo totale, nella narrazione di corpi, improbabili nella loro magrezza, che si contorcevano in allucinazioni impreviste. Segantini si esaltò in citazioni di pensieri orientali che dall’India profonda s’erano rimessi a vivere sulle nevi, con mescolanze di pensieri di vita e di morte, di purezza e di peccato. Alberto Giacometti indagò la solitudine dei suoi deambulanti come se fosse stato l’interprete visivo di Hermann Hesse, quando il poeta questa solitudine la accarezzava come necessità della condizione umana: “Seltsam, im Nebel zu wandern! Einsam ist jeder Busch und Stein, Kein Baum sieht den andern, Jeder ist allein” (Strano camminare nella nebbia! Ogni cespuglio, ogni albero è solitario, nessun albero vede l’altro, ognuno è lì solo)… “Seltsam, im Nebel zu wandern! Leben ist Einsamsein. Kein Mensch kennt den andern, Jeder ist allein” (Strano camminare nella nebbia! La vita è solitudine. Nessun uomo conosce l’altro, ognuno è lì solo). Tutte sensazioni che solamente l’immensità dello spazio può stimolare.
Al nichilismo di Hesse, alla metafisica simbolista di Hodler e di Segantini, Lois Anvidalfarei risponde con la convinzione d’una fede altrettanto montana. Da roccia. Da gelo. Da sole terso e alpino. Da prati infinitamente fioriti. Ecco il motivo di certe sue crocifissioni del dolore che vanno a tingere ogni accenno successivo al corpo umano. Vi è sempre presente la sorda sensazione che il Verbo si sia fatto uomo. Ogni suo corpo, di uomo e di donna, ogni suo disegno è portatore d’un messaggio di compiaciuta, forse tollerata, sicuramente accettata sofferenza. O forse il segreto è ancor più facile da svelare. È nella prassi stessa della scultura che sta il germe del riscatto. La scultura è, di tutte le arti, la più vicina al lavoro dei campi: richiede fatica, esige una fisicità forte, necessaria alla sua esecuzione. O almeno così è la legge formativa della sua – intendo di Anvidalfarei – che cresce su certi trabattelli che sembrano carri da trasporto, che richiede costante applicazione del proprio corpo da lavoratore ai corpi che lavora. Solo la scultura, fra le arti maggiori, richiede una collezione articolata di attrezzi da laboratorio per essere praticata. Solo la scultura richiede l’officina. Ma forse vi è di più ancora.
Nella distinzione esaltata dal Buonarroti tutto sembrava chiaro quando distingueva la scultura fra quella del mettere, ciò che i tedeschi ancora oggi chiamano Plastik, e quella del cavare; ed era ovvio che per un neoplatonico l’applicazione suprema fosse quella del cavare, poiché bastava togliere il superfluo per ritrovare nella materia la forma che l’idea vi aveva depositato. Questa seconda pratica è quella che i tedeschi chiamano del Bildhauer, del tagliatore di immagini: tanto chiara e cara ai neoplatonici quanto lontanissima dal caso attuale. È lontanissima da Giacometti come da Anvidalfarei. Il mestiere del Bildhauer, dalle parti loro, è già regolarmente praticato dai tagliapietra, dagli scalpellini e, in conseguenza, dagli intagliatori dei legni da decorazione. Lassù il mestiere nobile è l’opposto di quello del sommo fiorentino. Solo loro, forse, primitivi sacerdoti ancora d’un rito più anziano, plasmano la terra come lo facevano gli antenati con le statue steatopigie, perché si sostituivano al creatore nel creare le loro divinità ataviche. Vincenzo Cardarelli, il poeta di Tarquinia, considerava gli etruschi antichi come panettieri capaci di formare con l’abilità dei polpastrelli corpi per l’eternità. Giacometti riprende ossessivamente la statuina etrusca del museo di Volterra, quella che Gabriele d’Annunzio titolò L’ombra della sera. Forse Giacometti non lo sapeva, ma è ben probabile di sì.
In Anvidalfarei tornano i corpi dei sarcofagi etruschi, quelli che nella loro fisicità possente e umana affrontano la fine dei tempi nelle tombe e nel museo di Tarquinia. Forse Anvidalfarei non lo sa, ma è ben probabile di sì. Anvidalfarei, come Giacometti con molta probabilità, è per natura congenita lontano dal neoplatonismo: la montagna non prevede l’alta caverna delle idee. La montagna è già idea e ideale e idealista e idealistica in sé. La montagna richiede la fatica e la sublimazione, la montagna esige costantemente l’uso dei sensi per la conoscenza. Non ci è dato sapere cosa pensasse Aristotele della montagna alpina, e forse la questione non lo coinvolgeva più di tanto. Ma certo è che la vita di montagna spinge alla gnosi aristotelica, spinge alla conoscenza attraverso la comprensione e l’indagine dei sensi. In montagna chi perde i sensi perde il senso, chi perde il senso perde la vita. La montagna chiede allo scultore d’essere aristotelico e di plasmare con le dita. E però, pure, ogni montagna è un Olimpo, ogni montagna è un Sinai. Lassù stanno gli dèi, oppure sta Dio. E nel confronto ineludibile, sostanzialmente immanente nella prassi dei giorni che scorrono, la relazione con l’altissimo che diviene talvolta quella con l’Altissimo, nella nuvola alta del mistero delle cime o nel cielo terso, si sublima nel dialogo fra la fisicità del fare, dell’esistere, del soffrire e l’esaltazione del supremo.
Lois Anvidalfarei, Conditio humana, fino al 30 novembre alla Pelanda, ex mattatoio Testaccio, piazza Orazio Giustiniani 4, Roma, ingresso libero. Intervento in catalogo, cortesia dell’autore e Skira