C’era una volta un canone di bellezza ma oggi non c’è più, o meglio, oggi ce n’è un altro. E quest’altro è talmente affermato nella nostra società da farci pensare che sia l’unico esistente e degno di essere rappresentato. Donne magre, magrissime, che pretendono di somigliare alle modelle stile Twiggy ma che in realtà fanno pensare più alle protagoniste emaciate e ossute dei dipinti di Egon Schiele. Tuttavia non è stato sempre così: forse ce ne siamo dimenticati, ma in passato le forme classiche facevano appello a una sessualità paffuta e florida, segnata da un sottile punto vita, oltre il quale s’imponevano fianchi generosi e seni abbondanti e morbidi. Ultimamente buona parte della società, allarmata dalla sempre maggiore diffusione del modello di magrezza estrema trasmesso dal mondo della moda e della pubblicità, ha iniziato a opporsi e a richiedere un’apertura verso una realtà che esiste e si chiama normalità, generalmente distante anni luce da quella pretesa perfezione sempre più surreale e impossibile da raggiungere.
La fotografia, che si è servita nell’ultimo decennio dell’ausilio di programmi informatici per creare immagini ritoccate e posticce, sta invece iniziando a lasciare più spazio a un fedele iperrealismo, che metta in evidenza e, anzi, esalti le irregolarità e i difetti dei soggetti fotografati. Ci sono artisti, come la tedesca Julia Fullerton-Batten che nel loro lavoro ritrattistico danno spazio a un mondo immaginario e fantastico (seppur manipolato), abitato da personaggi reali, siano essi anziani panciuti o giovani donne in sovrappeso. È il caso di Unadorned, il lavoro realizzato dall’artista nel 2012, sotto il cui titolo allusivo, sono raccolti una serie di scatti dedicati a donne e uomini dalle forme fisiche più che generose, rigorosamente svestiti. Se per Botero la scelta di ritrarre corpi voluttuosi e rotondi, elemento distintivo e inconfondibile del suo tratto stilistico, era soprattutto un espediente per concentrare la sua ricerca sui volumi, per Julia Fullerton Batten significa in primis mettere in discussione uno stereotipo. Se il nostro tempo pone in evidenza un solo tipo di canone, non vuol dire che un artista debba conformarsi a esso. Non è un caso che nel suo lavoro sempre originale e contemporaneo, la fotografa abbia guardato con un occhio anche al passato, reinterpretando attraverso una lente d’ingrandimento i dipinti della tradizione del XV e XVII secolo. In atmosfere rubensiane, in cui la luce spesso è quella di una candela, protagonisti sono i corpi opulenti di uomini e donne in sovrappeso, inseriti in spazi domestici, immobili come nature morte poggiate su un tavolo in legno massiccio. Siano essi intenti a specchiarsi come un narciso sul punto di perdere l’equilibrio, o distesi supini come nei dipinti di Tiziano, ma privi di grazia, schiacciati da strati di materassi che ricordano più un doppio cheeseburger che lenzuola di seta, essi mostrano comunque di sentirsi a proprio agio con il loro corpo.
In un mondo ingabbiato in una dimensione in cui la bellezza viene costantemente manipolata, loro giacciono lì, fieri dei propri rotoli di grasso e spavaldi e altezzosi nel mettersi in posa. Forse un’ode alle taglie forti, forse una critica a un ideale culturale ormai obsoleto o forse semplicemente delle belle fotografie, che colpiscono più che per i soggetti extra large, per l’abilità con cui l’artista ha ricreato effetti di luci, chiaro-scuri e ambientazioni di grande impatto visivo. Come attori su un set cinematografico, i personaggi interpretano perfettamente il ruolo che è stato loro attribuito con disinvoltura, mostrando la sensualità che un corpo può sprigionare, anche se le sue forme non si confanno al target di bellezza dei nostri tempi.