Concordia, l’inciviltà dello spettacolo

Una selva di telecamere, troupe attruppate come alla presa di Baghdad, un trillare di telefonini che pure Echelon e quei simpaticoni della Nsa faticano a stargli dietro. Trecentocinquanta giornalisti accreditati, all’incirca dieci ogni cavo utilizzato per raddrizzarla – ma accreditati dove? Esiste uno sportello ad hoc, nell’ufficio del sindaco? È la biglietteria della Costa crociere che stacca i passi? – prime pagine a gogò, dirette tv in streaming e in chiaro. La non stop globale con la quale un esercito di cronisti e un esodo di curiosi ha occupato ogni scoglio dell’Elba per gettare uno sguardo voyeuristico sul ribaltamento dello sfracello fatto da capitan Schettino la dice lunga su quella che Mario Vargas Llosa definisce la civiltà dello spettacolo.

Davvero l’evento giustifica il circo mediatico che ha montato le tende davanti al cadavere della Concordia, i toni a metà tra il trionfalistico e la tregenda con cui si segue ogni centimetro di risalita del corpaccione della nave? Davvero quel che succede davanti a Giglio Porto ha a che fare con l’esigenza d’informare in tempo reale un pubblico che vuole saperne di tutto, di più? Ne dubitiamo. Quanto accade in quello spicchio di mare dà piuttosto la percezione del reale. Di quanto la spettacolarizzazione del quotidiano sia dottrina comune – linguaggio corrente e solido mancorrente – non solo per chi misura la realtà in termini d’audience e di pixel. È – per abusare ancora del buon Vargas – una mutazione genetica che ha travalicato i codici deontologici di una professione squalificata come poche, per un’abbuffata di presenzialismo tanto invasivo quanto persistente come una bolla di sapone al toccare terra.

La percezione d’ogni disgrazia come mise en place dello sbrodolìo sensazionalistico è superata, e non si lamentino i gazzettieri della loro fine annunciata, del fatto che ogni internettiano compulsivo, ogni twitterista scamuffo possa e debba dire la sua ogni tre per due, se non si riesce più a distinguere, ai piani alti come dietro all’ultimo palmare, cosa meriti d’essere raccontato e spiegato e su cosa, invece, per carità di patria andrebbero spenti i riflettori, riposti i cavetti. Una ripresina al massimo, ché mica è l’allunaggio. Oppure, magari, ricordarsi dei morti, anch’essi sacrificati sull’altare dell’intrattenimento e dell’idiozia che dominano le coscienze dei pennivendoli, i bisogni d’ognuno.

Ma nessun tema: i confini di questa peste sono ben al di là del nostro orizzonte ottico, dall’inciviltà dello spettacolo nessuna branca del sapere pare immune. Tra unti e untori non c’è distinguo, siamo tutti parte della colonna infame, come in una pièce del buon Manzoni. Le memorie dei graffitari sullo scafo già ci sono. A quando le memorie del capitano, un suo manuale d’inchini marinareschi, o un reality show più bello ancora di quello in onda dalle rive dell’Elba, perché frutto di pura finzione? Ognun cinguetti, in questa gabbia mediatica, in quest’ordalìa di nonsenso senza fine. E che, alla fine, su tanto scempio torni il rumore del mare, al massimo il grido d’un gabbiano.