La terra non la si può trovare se non allo stato primario di fango o di sacco, ma si può certo sottoporre, per così dire, a una morte della forma da cui “rinascono” oggi, fra le altre cose, quei crateri che per il momento sembrano offrire a Maria Cristina Carlini la sintesi “giusta” fra elementarità del fare e ricchezza dell’elaborazione, fra tema formale e variazioni realizzative, fra volume e superficie. “Abitando un vasaio accanto a me, del mestier mi svelò il segreto antico: per far vasi ei prendea teschi di re, e, per far l’anse, stinchi di mendìco”, suggerisce Omar Khayyam. Maria Cristina Carlini sembra essersi ricordata delle sue quartine quando ha modellato il cratere in modo così semplice, quando ha individuato un volume così sferico e pieno che ricorda certi contenitori d’anime dell’Africa centro-occidentale; un cratere che sempre mostra, nelle incertezze, imperfezioni e differenze di modellazione che lo distinguono dagli altri, la sua origine pre-tecnica, o meglio, mostra le mani che l’hanno fatto, il loro tocco e i loro polpastrelli, il loro tempo e la loro dedizione.
Vuoti come i teschi dei re, i crateri di Maria Cristina Carlini sono sempre profondamente individuali e individui, non sono e non potrebbero mai essere fatti in serie, assomigliarsi: li distingue un sempre diverso trattamento della superficie, la voglia di sperimentare su di essa patine e colori, l’effetto degli ossidi e l’effetto dell’oro e dimensioni che sempre cambiano, anche se di poco. Così, accartocciati come melagrane disseccate, o invece turgidi, preziosi oppure poveri, i crateri compongono una specie di grande famiglia, una collezione inesauribile di varianti quasi musicali, amorevoli verso la dimensione antica e riarsa della terra intesa come base della vita, dell’essere e della stessa civiltà umana. E quest’anfora, un dì, visse e gentile creatura, d’amore mosse in traccia; e quest’anse contorte furon braccia e a più d’un collo fecero monile. C’è poi, si diceva, l’altro utilizzo della ceramica intesa come “fucina del pensiero”, spazio sperimentale e concretamente progettuale, che Maria Cristina Carlini ha approfondito moltissimo negli ultimi vent’anni, sospingendosi sempre più spesso alla ricerca di altre risorse materiali, altre tecniche ed altre alleanze che le consentissero di elaborare l’opera finita: perché, infatti, è emersa in lei con determinazione sempre maggiore e con l’invadenza, ingombrante, di una vera vocazione, la propensione al monumento, alla scala ambientale e sono apparsi sul suo orizzonte immaginativo altri “soggetti” a cui associare sempre più spesso la sua fantasia e i suoi desideri. Intendo dire la “porta” e l’albero, la vita e la forma vegetale. […]
Ci sono naturalmente diverse eccezioni a questa regola: fra le più notevoli, voglio richiamare almeno Musica (2013), una sperimentazione polimaterica sul rilievo basata sull’alternanza di materiali diversi per colore, consistenza, reattività alla luce e, per così dire, “temperatura” che richiamano proprio l’alternanza ritmica di suono e pausa, oppure di differenti timbri sonori in un’orchestrazione. La dimensione ritmica e musicale era peraltro già presente nell’aggraziato Note (1999), un insieme di figure geometriche sospese nel vuoto, sorta di sorridente violazione alle leggi della gravità e della scultura e, insieme, evocazione del gioco delle note musicali, armoniosamente distribuite nello spazio del pentagramma. Stracci, infine (2006), è un altro importante lavoro polimaterico che concettualmente occupa una nicchia intermedia fra oggetto e monumento: qui, nell’opera che in assoluto presenta più rimandi all’antiform americano, che si accosta a esperienze di new ceramics e che sembra volutamente rievocare l’ombra della grande Eva Hesse, pur restando pienamente originale, Carlini ha usato la ceramica per ricavarne dei “fogli” larghi e molli, piegati intorno a un supporto dal loro stesso peso e dalla loro stessa consistenza, che li deforma senza però arrivare a spezzarli. Si tratta dunque di un “quasi niente”, dello scultore che minimizza la propria presenza per lasciar fare alla materia in sé, registrando solo il suo comportamento naturale di fronte alle leggi di gravità, sospingendola fino all’estremo limite della resistenza statica, perché la “reazione” spontanea del materiale diventi, essa stessa, “scultura”. Nei monumenti “propriamente detti”, invece, il lavoro dell’artista emerge con forza, è pienamente visibile: peraltro, la scultura monumentale è congeniale a Maria Cristina Carlini, la soddisfa, le consente di confrontarsi con lo spazio vero, della vita, fuori dai recinti protettivi degli ambienti destinati all’arte e alle mostre. […]
La scultura si fa quindi segnale, antenna sensibile al passaggio dello sguardo nel tempo; per meglio dire al passaggio di uno sguardo che non resta mai lo stesso. Dunque, si capisce meglio come, dopo essersi allenata su un intero ciclo di grandi porte, o soglie, alcune delle quali alte anche quattro metri, l’artista abbia scoperto un’altra dimensione possibile, un altro riferimento che le consentiva di non perdere di vista la valenza monumentale e complessa per il proprio intervento ma, al tempo stesso, di non rinunciare neppure a quella trasparenza, a quella permeabilità, per così dire, all’aria, all’atmosfera e al passaggio dello sguardo che, dal 2000 in poi, caratterizza ormai la sua poetica: e il riferimento è quello all’albero, al bosco. Certo, dalla terra al legno il passo è relativamente breve: dopo la ceramica il legno è senz’altro il materiale naturale più antico e significativo per la civiltà umana e, al tempo stesso, il più “primitivo”. Non a caso è al legno che ricorrono molti artisti delle avanguardie storiche, penso specialmente a Brancusi, nel momento in cui cercano una strada che li conduca fuori dai bassifondi di un classicismo ormai esausto; e non sorprende che Maria Cristina Carlini, così sensibile alla lezione del migliore Novecento, abbia dedicato la sua attenzione e la sua sapienza tecnica a questo materiale, non nuovo però ma sempre di recupero, segnato e patinato dal tempo, che associa volentieri al ferro, alle resine e all’acciaio. […]
Sono nati così Fantasmi del lago, Legni, Chernobyl, Colonna vertebrale, Cerchi e, da ultimo, l’imponente Vento (nella foto), che interpretano tutti l’idea dell’albero, o del bosco, senza mai limitarsi a un’imitazione e senza mai ripetere due volte lo stesso percorso. Se, infatti, nel primo caso, che è tale anche cronologicamente, il modulo romboidale ripetuto dà luogo a risonanze quasi musicali, a echi della Colonna infinita che vibrano graziosi sullo specchio d’acqua previsto dall’artista ai loro piedi, Chernobyl richiama invece piuttosto un allestimento, una vera e propria scenografia di tronchi e rami sonori, animati dal vento, trasparente metafora di una natura offesa e degradata ma anche di una cultura che vuole farsi spazio, appunto ambiente. Negli esiti di questo “virtuosismo installativo”, Maria Cristina Carlini si apparenta a uno scultore come Alik Cavaliere che, negli anni Ottanta e Novanta ha guardato con entusiasmo, creatività e persino nostalgia al mondo vegetale, servendosi entusiasticamente di tutte e tecniche, le idee, le suggestioni e gli appetiti che gli venivano in mente per mettere in scena non “opere” chiuse ma piuttosto mondi, teatri, labirinti squisiti in cui perdersi con gli occhi e il pensiero. Un eclettismo fantasioso e programmatico che, almeno in parte, Maria Cristina Carlini condivide, tanto nella scelta trasgressiva dei materiali quanto nella sistematica sostituzione del pieno col vuoto, del volume con l’intervallo, del peso con la leggerezza. Ma per lei si tratta soltanto di una via: se, infatti, Cavaliere si perdeva volentieri nel dettaglio e in una tendenza all’aggregazione, all’addizione che escludeva qualunque compendio, per Carlini invece quello con la sintesi resta di tanto in tanto un appuntamento indispensabile, il momento della concentrazione e, perché no?, della sfida.
Non a caso , il più coraggioso e impegnativo di questi monumenti al regno vegetale è indubbiamente l’ultimo, Vento, un vertiginoso “ventaglio” alto quattro metri e mezzo e costituito da pesantissime assi di recupero trattenute obliquamente da un telaio di acciaio corten. In questa grande opera, agisce un gioco di significanti interni in aperto contrasto l’uno all’altro: la fermezza diventa flessibilità, l’imponenza gentilezza, il volume superficie, la verticalità gioco di forze in equilibrio; tutto senza perdere la memoria della propria origine, della natura dei materiali e delle forme di partenza. Di fronte a questo, che mi azzardo a chiamare capolavoro, non ha più senso parlare di astratto, figurativo, di riferimenti e di intenzioni: l’opera sintetizza potentemente tutti gli aspetti, le idee e l’ispirazione che l’hanno determinata, ed è il risultato dell’incontro con le leggi della statica e della resistenza (da sempre leggi e determinazioni della scultura) che l’artista ha incontrato e felicemente risolto qui in una sintesi del tutto nuova e personale che, proprio per questo, presenta anche una sicura, indiscutibile bellezza. […]
Maria Cristina Carlini, Fare secondo natura, a cura Martina Corgnati (estratto dal catalogo, cortesia dell’autrice e Skira). Castello reale di Govone, Roero (Cuneo), fino al? 3 novembre