Classici d’oggi

I paesaggi dell’arte contemporanea, spesso, sono descritti come territori frastagliati, disomogenei, instabili. Assistiamo alla convivenza di varie e difformi modalità espressive. Diversamente da quel che era avvenuto nel Novecento, non ci sono più movimenti omogenei e compatti, ma personalità individuali. Si è compiuta una deflagrazione: è stato esaltato il valore creativo dell’io. Le tendenze sono entrate in crisi, per dissolversi in una diaspora infinita. È davvero così? Si pensi al contesto italiano attuale. Sulle orme di quanto avevano fatto i protagonisti dell’arte povera, della transavanguardia e del post-concettuale – da Pistoletto a Paolini, da Kounellis a Paladino, da Longobardi a Parmiggiani, da Jodice a Beecroft – molti artisti delle ultime generazioni avvertono con forza il bisogno di guardare dietro di sé. Considerano la memoria quasi come una facoltà epica. Vogliono radicare i loro esercizi in regioni lontane. Riattraversano i labirinti della storia dell’arte. Guidati dal bisogno di riaffermare il senso della continuità, si fanno interpreti del destino dell’avanguardia. Pur con accenti diversi, molti artisti attivi in Italia dal secondo dopoguerra sembrano voler reagire a quei critici antimoderni che accusano l’arte di oggi di inconsistenza. Per offrire un retroterra culturale alle loro avventure linguistiche, attribuiscono una nuova centralità alla storia. Si comportano, per riprendere una metafora cara a Marc Fumaroli, non come ragni, ma come api. Per loro, eseguire un’opera non è far nascere qualcosa dal niente, ma è “un trovare e un ritrovare, che ha per merito principale il rinnovo dei luoghi di un’eterna dimora comune”. Sono animati dalla convinzione secondo cui l’apice della civiltà è stato raggiunto nell’Antichità, cui si rifanno costantemente. In questa prospettiva, indispensabile è il richiamo alla classicità, non come immobile e inattingibile archivio di motivi da replicare, ma come arsenale di valori senza luogo e senza tempo. Miniera di categorie assolute da reinterpretare in un’ottica moderna. Scrigno da perlustrare, manipolare, saccheggiare e, infine, tradire. Duchamp non è più il modello privilegiato. Frequenti le citazioni dalla statuaria antica e dalla storia dell’arte. E, tuttavia, siamo lontani dal postmoderno e dall’anacronismo. Molti artisti italiani pensano la classicità non come un patrimonio da rimodulare con ironia e disinvoltura, trasgredendo ordini e gerarchie, né come un’eredità intoccabile da rifare, ma come strumento per guarire dalle ubriacature della modernità. E, insieme, come spazio che può alimentare inquietudini, interrogazioni, ansie. Servendosi di media diversi, questi artisti tendono a collocarsi in un territorio poetico comune, fino a dar vita a una sorta di implicito movimento. Ad accomunarli è il bisogno di reinventare temi fondamentali della classicità, fino a renderli irriconoscibili. Riscrivono frammenti dell’antichità: barlumi che fanno appena intuire la totalità. Siamo dinanzi a profanatori, che propongono un confronto dissacrante con la memoria. Classico, per questi artisti, non riguarda solo il passato, ma investe il presente e prefigura gli scenari dell’avvenire. È ciò che tende a relegare l’attualità al rango di un rumore di fondo di cui non si può fare a meno. Interrogano la memoria, per rafforzare la loro voce. Dialogano con i “padri”, per moltiplicare gli spazi dell’immaginario. Pensano le loro opere come dissonanti palinsesti, nei quali le orme della tradizione si confondono con quelle della modernità più estrema. Illuminanti, in tal senso, gli esercizi concettuali di Paolini, architetto di austeri templi e di sofisticati rispecchiamenti tra calchi. E le opere epiche di Kounellis. Imprescindibili riferimenti per molti artisti italiani delle ultime generazioni, ci invitano a considerare il classico come una necessità sempre viva. Un evento che muore per rinascere ininterrottamente, ogni volta uguale a se stesso e ogni volta diverso.

*estratto da Post-classici, cortesia Electa e dell’autore

La mostra, Post-classici

La ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana: fino al 29 settembre gli spazi monumentali del Foro romano e del Palatino a Roma accolgono la mostra Post-classici dedicata ai rapporti tra arte contemporanea e antichità. Il tema della mostra, curata da Vincenzo Trione e promossa dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, è appunto il richiamo all’antico inteso come fonte di valori classici, eterni, assoluti: bellezza, armonia, perfezione, misura e sapienza, reinterpretati in chiave moderna. Per la prima volta, l’arte del nostro tempo entra nel Foro: 17 artisti traggono ispirazione dal dialogo coi luoghi della classicità, confrontandosi con luoghi e monumenti diversi (Tempio di Romolo, Tempio di Venere e Roma, Vigna Barberini, Stadio di Domiziano, Criptoportico neroniano e museo Palatino), presentando opere quasi tutte realizzate per l’occasione. Sono presenti maestri dell’arte povera e della transavanguardia come Kounellis, Pistoletto, Paolini e Paladino; figure non inquadrate in alcun movimento come Aquilanti, Parmiggiani, Longobardi, Albanese, Beecroft; fotografi come Jodice e Biasiucci; voci ”mistiche” (Botta, Pietrosanti) autori post-informali come Colin, fino ai giovanissimi quali Zimmer Frei, Alis/Filliol e Barocco. Accompagna la mostra un volume edito da Electa dove, oltre alla presentazione delle opere esposte, è analizzato a più voci il rapporto tra classicità e contemporaneo. Info: archeoroma. beniculturali.it