Non solo consolazione ma guarigione

Ho molto apprezzato il commento di Melania Mazzucco apparso su Repubblica il 5 maggio scorso sulla Crocifissione di Matthias Grünewald, inserito nel polittico dell’altare dei monaci Antoniti di Isenheim, dipinto tra il 1512 e il 1516. Vorrei riprendere tuttavia alcuni aspetti. La scena si presenta come una composizione altamente drammatica, atroce nella sua spietata crudezza. Sconvolgente. Indimenticabile nella sua capacità di immergerci nella dimensione del dolore. E proprio per questo non può essere separata dall’anta della risurrezione, a cui fa da pendant. Non ci può essere il crocifisso se non c’è il risorto. La morte si presenta qui in tutto il suo orrore. La scena è immersa in una notte cupa, in una tragica desolazione. Tutto si concentra sulla visione terrificante del crocifisso. Il Cristo è circondato a destra da Giovanni il Battista che lo indica col dito come il messia, il redentore. E in basso, sta un agnello: Cristo è l’agnello senza macchia morto per la salvezza del mondo (Gv 1,29). Alla sinistra è posta la Maddalena con le mani giunte verso l’alto in un gesto di disperazione e, al suo fianco, la madre di Gesù, Maria, sul punto di svenire, sorretta da Giovanni evangelista. La Maddalena apre la bocca a un urlo che è supplica, pianto. Intensa è la commozione che suscita nel fedele. Il suo sguardo si rivolge al capo di Cristo reclinato sul petto e sormontato da una corona di spine, come se il figlio di dio, ancora in vita, potesse chinarsi a parlarle.

Il Cristo appare come un uomo moribondo, malato, più che torturato, colto nell’estremo spasimo. Non ha ancora vinto la morte. Immerso nel silenzio di una oscurità senza luce, il suo corpo è teso come su una balestra di un arco. Il perizoma è lacerato. Il suo petto è dilatato nella tensione spasmodica che precede la morte. Le sue labbra sono tumefatte. I piedi non poggiano direttamente sul suppedaneo, in quanto trafitti da un enorme chiodo che li rende sospesi e si torcono convulsamente, come le dita delle mani. I bracci della croce rozzamente sgrossata si piegano dalla forza straziante del dolore. Il suo ventre è inarcato, come se non potesse sostenersi. Lo sforzo che precede il momento della morte è tale che il legno della croce appare piegarsi, arcuarsi. Il corpo imponente e smisurato è martoriato, ripugnante. Smisurato, perché Cristo prende su di sé il male del mondo.

L’intera opera era collocata (è ancora oggi in situ) sull’altare maggiore della cappella di un ospedale di malati dalle piaghe delle malattie curate nell’ospedale: dalla peste alla sifilide, dal fuoco sacro a numerose malattie della pelle, all’epilessia. L’apertura del polittico, con la scena della Crocifissione, doveva avere un grande impatto emotivo. Al posto delle ferite dei soldati, i malati, infatti, vedevano impresse sul corpo di Cristo le loro piaghe. Tuttavia, non si tratta solo di un’immagine consolatoria, come dice la Mazzucco. Toccandolo, i malati chiedevano di essere guariti. È quindi un’immagine a cui si attribuivano poteri taumaturgici. Grünewald ci introduce in una precisa visione teologica. Il Cristo prende su di sé tutte le infermità, inscrivendole nella propria pelle, nel proprio corpo, perché il malato ne possa essere guarito. Si fa lui stesso corpo malato, perché l’umanità ne sia liberata. Cristo è colui che salva, prendendo su di sé il male dell’uomo, caricandosi del suo peccato, fino a diventare lui stesso maledizione, come scrive Paolo di Tarso (Gal 3,13). I malati si rivolgevano a Cristo non solo per essere consolati ma per essere salvati. Cristo sulla croce si fa infatti solidale con il malato. Con il suo corpo malato. Nel suo corpo il male si personifica, si rende visibile. È lo scandalo della croce. Non sorprende per i primi cristiani il sorgere di una domanda inquietante. Come era possibile che quel corpo appeso a un palo fosse il bene? Il bene si presentava infatti in modo deforme, sfigurato, orribile a vedersi. Siamo ben lontani dalla visione greca del bene che si mostra nell’armonia, nella bellezza. Grünewald consegna una visione sconcertante, agghiacciante. È l’abominio della croce. «Io sono la luce del mondo» (Gv 8, 12), dice di se stesso Gesù nel vangelo di Giovanni. E nel polittico, Gesù è associato al sole, come mostra il pannello della risurrezione. Anche nella crocifissione c’è il sole, ma è come se attraversasse la notte. Nascosto. C’è, anche se non lo si vede. Occorre attendere l’alba per contemplarlo. In quel corpo, Dio assume i tratti di un’umanità fallita, sofferente, lacerata. È un Cristo sofferente. È un dio nascosto che si cela nei drammi dell’uomo. Dio accetta di prendere su di sé il dolore dell’uomo, perché diventi libero di vivere la sua pienezza di vita. È questa un’immagine di dio pienamente umana. Non è forse di questo che abbiamo oggi bisogno, contro i falsi dei che ci vengono proposti, a iniziare dalla politica?