Se c’è una cosa che conferma Venezia città d’arte votata al contemporaneo, oltre alla Biennale, questa è Arte laguna. Anche la settima edizione del premio si conferma di tutto rispetto, per la qualità delle opere esposte e la capacità di mettere in piedi qualcosa in grado di dare alla città più dell’usa e getta consueto. E partiamo dai vincitori, selezionati dalla giuria presieduta da Igor Zanti: nella sezione pittura, forse un po’ sottotono rispetto alle altre, vince Ivelisse Jimenez con Detour#21, sorta di collage di plastici fogli multicolorati; per la fotografia di aggiudica i 7.000 euro di premio l’inglese Richard Ansett col suo Boy un po’ troppo manierato; per l’arte virtuale il bel video dell’israeliana Nirit Zer, per la performance il cubano Carlos Martiel – altrettanto di maniera, a dire il vero, con la sua rievocazione del rapporto col padre militare nel complesso contesto della rivoluzione cubana.
Ma è la scultura la sezione che, quest’anno, convince più di tutte: parecchie, qui, le opere degne di nota. A partire da quella vincitrice del bulgaro Constantine Zatlev, The last gun (nella foto), dove un vecchio fucile da caccia riattato a flauto suona, ogni sette minuti, una melodia che si visualizza in un grafico con le vendite d’armi nel mondo, in tempo reale. Geniale. Non meno interessante il messicano Meir Lobaton Corona, col suo Cristo di porcellana che s’asciuga sempre più fino a ridursi a una spettrale Ombra della sera etrusca o a una figurina giacomettiana. E che dire di The last soup, L’ultima cena di Penka Mincheva, anch’essa bulgara, dove le aureole stanno sospese sulla tavolata vuota, orfane dei loro apostoli? Due esempi, specie il secondo, d’arte che sconfina nella storia, non limitandosi a rifugiarsi in estetismi più o meno riusciti. Ma molte opere della sezione sono davvero riuscite, a partire dal muro dei 365 giorni della propria vita inscatolati dall’argentino Guillermontalbano, la tela sospesa del sudcoreano Choi Jaeyong, le bellissime lacrime appese con interni di vita vissuta dell’altra sudcoreana Jae Won Lee, le figure parentetiche in vetro soffiato dello statunitense Mildred Howard, il muro di spugne di Olga Lah, anch’essa statunitense, Dina Shenav con la sua La fine della foresta in gommapiuma, Maria Waliswska con le sue palle d’acciaio a scontrarsi, con l’azzeccato titolo Tutto il resto è silenzio, per finire con l’opera premiata dalla sala stampa, i grattacieli di rotolini di scontrini dell’inglese Jill Townsley. Insomma, tranne qualche lavoro improbabile, come le palate di terra del messicano Hilario Ortega Castillo, o le illuminazioni di Marilyn Lowey, una sezione davvero convincente.
Non solo scultura, però. Anche la fotografia ha espresso molto di buono, dal commovente bacio fra anziani sullo sfondo di un paesaggio urbano desolante di Christophe Audebert, parigino, ai chiaroscuri siberiani di Dario Camilotto, dal Sans titre di Ghizlène Chajai al tronco contorto e sfumato di Charles March, dall’onirico paesaggio di Kazz Morishita alle estetizzanti figure femminili di Laetitia Soulier e Wendy Sacks, per finire con l’altrettanto estetizzante – e inquietante – Moglie del macellaio dell’australiana Linda Pottage, premiata pur’esso dalla giuria giornalistica. E la pittura? Un pelo più in basso, come si diceva, forse per la difficoltà nel dire qualcosa di nuovo con un linguaggio artistico frequentato da millenni. Da sottolineare, pur nello stile di maniera, gli italiani Eloise Amadei e Claudio Cerra, ma soprattutto la polacca Aleksandra Jarosz Laszlo, con il suo Raison d’etre. Tra i video e l’arte virtuale, infine, visibile questa al Centro Telecom – neosponsor di Arte Laguna, che nel complesso mette in campo la bella cifra di 180mila euro – a due passi dal ponte di Rialto, oltre a Sahar Marcus, geniale come al solito, una citazione meritano i tedeschi Monika Fleischmann e Wolfgang Strauss (nomen-omen), con la loro immersione narcisistica e, per il fascino dell’artista-interprete, Balance dell’iraniana Shirin Divanbeigi. Interessanti anche i lavori degli “under 25”, esposti da oggi al 31 marzo, come gli altri alle Tese di San Cristoforo, all’Istituto romeno di Venezia, nel centrale Campo di Santa Fosca.