Basilico, fotografo urbano

L’intervista a Gabriele Basilico è stata fatta da Manuela De Leonardis, è pubblicata nella raccolta A tu per tu con i grandi fotografi, volume I, edito da Postcard. Qui ne presentiamo un estratto per ricordare il fotografo scomparso.

Da cosa è attratto quando mette piede in un posto diverso dalla sua città?

«Sono attratto sia dalle cose che conosco, e che ritrovo, sia da quelle sconosciute. Si può dire che tutto il mio lavoro sia un montaggio visivo di queste due cose. Spesso le singole fotografie vengono organizzate in una sequenza di tipo narrativo, non tanto come stile, ma come scelta di percorso. Questo atteggiamento, con le necessarie variabili, può dar luogo a un libro o a una mostra. Questa ossessione di fotografare quasi senza soluzione di continuità, è diventata una sorta di missione con la quale mi sembra sia possibile, attraverso la fotografia, tentare una ricomposizione visiva del territorio. Questo sia nel momento delle singole riprese fotografiche e nella costruzione di un progetto più complesso, che attraverso le tessere di un grande mosaico. Tornando alla domanda, sicuramente l’istinto mi conduce a ritrovare quello che conosco. Lo scrittore Gianni Celati ha interpretato molto bene questa attitudine. Celati ha viaggiato moltissimo, ha camminato anche in zone sconosciute dell’Emilia, cercando di comprenderne la natura e la contemporaneità di quei luoghi minori. Per me il momento più difficile è quando fotografo un posto che non conosco, un po’ come per il chirurgo la prima incisione nel corpo del paziente. Devo fare in modo che il luogo mi diventi amico, dopodichè, forse, posso procedere in modo naturale».

Lei non fotografa mai la gente

«Molto poco»

La presenza umana si rintraccia soprattutto nelle auto in sosta e nei cartelloni pubblicitari.

«Sono d’accordo. Aggiungerei che è, parzialmente, una visione storica. Raccontare la storia di una città attraverso i suoi manufatti, sia nelle visioni panoramiche che nelle riprese ravvicinate, equivale a raccontare la storia dell’auomo. È un po’ come dire che l’abito fa il monaco, nel senso che si può analizzare bene un vestito, per immaginare chi lo indossa. Ritratto e reportage non sono i soli modi di descrivere l’umanità».

C’è una fotografia che non hai mai fatto, ma chele piacerebbe fare?

«Sa che questa domanda conclude sempre le interviste di Hans Ulrich Obrist? Comunque, per rispondere alla domanda, mi sembra di aver fatto tutto quello che volevo fare, nel senso che il mio lavoro di fotografo urbano è come se fosse un’opera aperta, dove tutto lo spazio che sta nel mondo esterno, e che intercetto con lo sguardo, può essere accolto e ricomposto in un mosaico infinito».