I nuovi mecenati/2

Fondazioni bancarie baricentro dello sviluppo culturale italiano? Nella prima parte del servizio sui nuovi mecenati ci eravamo soffermati sul ruolo di grande impulso finanziario che le fondazioni di origine bancaria hanno nella promozione del patriomonio culturale e artistico. Questo è un dato incontrovertibile ma che, tuttavia, non è esente da alcune criticità. Soprattutto se si condisera l’aspetto qualitativo che contraddistingue i metodi e i risultati legati alle opere che spesso le fondazioni realizzano. Questo, almeno, è il parere di alcuni studiosi ed esperti del settore. Come Ludovico Pratesi, critico d’arte e curatore, direttore artistico del Centro arti visive Pescheria di Pesaro, che non manifesta alcun approccio ideologico alla compartecipazione tra pubblico e privato nel sostegno all’arte e alla cultura, ma che sottolinea alcune spigolature nel modus operandi delle fondazioni: «Molte di loro agiscono attraverso bandi – spiega a Inside Art – e quindi si aprono a interventi mirati, spesso in risposta ad esigenze che provengono da parrocchie o piccoli centri culturali. In molti casi tali erogazioni non hanno alcun fine culturale in senso proprio, ma un valore prettamente benefico. Parliamo di restauri, prevalentemente. Qualche fondazione, poi, partecipa anche ai musei d’arte conteporanea e questa è un’attività encomiabile ma è piuttosto incoerente parlare di un comportamento generalizzato».

Se quindi sotto il profilo normativo e organizzativo la territorialità è diventata una caratteristica che ha fatto delle fondazioni bancarie centri di assoluto spessore e di grande influenza in alcune zone del paese, bisogna riconoscere che la valutazione prettamente artistica della loro apertura e sensibilità culturale ne ha piuttosto risentito. «Il loro impegno è sempre molto utile e generoso, ma poco consapevole – continua Pratesi – investono su quello che viene segnalato dal territorio e raramente intervengono di loro sponte». In sostanza, ciò che relega il loro ruolo a partner e non a leader del processo di sviluppo artistico è l’assenza di progettualità. E per avere un’idea più completa di questa analisi basta volgere lo sguardo all’estero. In Spagna per esempio. «A Barcellona – racconta Pratesi – una delle più grandi fondazioni europee, la Caixa d’estalvis i pensions, nel 1981 chiamò una delle più celebri curatrici di arte contemporanea per allestire una delle esposizioni più interessanti. Ma in Italia non è mai successo nulla di simile». Pratesi è anche particolarmente sensibile all’argomento. È direttore della fondazione Guastalla per l’arte contemporanea nonché vicepresidente dell’Amaci, l’associazione dei musei di arte contemporanea italiana. Anche per questo nota come l’impegno a sostegno del contemporaneo da parte delle fondazioni sia abbastanza deficitario. Ma cosa dire allora a proposito delle collezioni private che spesso le fondazioni bancarie aprono al pubblico in giro per l’Italia? «Ne conosco poche – risponde Pratesi – una di queste però è certamente quella della fondazione Cassa di risparmio di Torino, che ha creato una bellissima collezione attraverso acquisti e commissioni. Il resto è composto per lo più da collezioni espressione dei territori di riferimento».

Il valore della sussidiarietà non è di certo ridimensionato da queste considerazioni. Anche perché tale principio può rappresentare un’assoluta risorsa, specialmente in un ordinamento giuridico organizzato come quello italiano ma attribuire alle fondazioni di origine bancaria il managment del patrimonio culturale nazionale sarebbe poco lungimirante, soprattutto in ragione del fatto che nei loro organi direttivi convivono alchimie politiche e partitiche che potrebbero contaminare l’integrità degli obiettivi artistici. Ma cosa ne pensano le fondazioni? Quale ruolo hanno intenzione di ritagliarsi realmente nello scenario culturale italiano? E perché? Nella nostra conoscenza del mondo dei nuovi mecenati scopriremo anche questo.

 

 

 

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