Israel Now al Macro

Da alcuni anni l’Italia ospita sempre più frequentemente eventi artistici e culturali “made in Israel”. Sicuramente questo è il sintomo di un grande fermento che proviene dal Medio Oriente e che il Belpaese accoglie ogni volta con maggiore entusiasmo. Solo a Roma nel 2012 si sono registrati numerosi appuntamenti dedicati all’arte, al cinema, al teatro, alla letteratura, alla danza e alla musica israeliana. Come ad esempio la Batsheva dance company, diretta dal coreografo Ohad Naharin, che è stata ospitata lo scorso autunno all’interno del Romaeuropa Festival 2012; o il recente concerto all’Auditorium del giovane e talentuoso Asaf Avidan, noto per il suo singolo “tormentone” One Day/Reckoning Song. Per non parlare degli straordinari appuntamenti che si tengono ogni anno nella capitale, come il festival internazionale di letteratura ebraica che accoglie a ogni edizione numerosi scrittori ed artisti israeliani, e il Pitigliani Kolno’a festival, la rassegna che ha luogo alla casa del Cinema volta a mostrare le eccellenze della cinematografia israeliana contemporanea, come il più che apprezzato film di Rama Burshtein La sposa promessa.

Il 2013 è appena cominciato, e già possiamo parlare di una mostra che accoglie ben 24 artisti israeliani al Macro Testaccio di Roma. Si tratta di Israel Now, reinventing the future, a cura di Micol Di Veroli che ha il merito di portare nella capitale un grande spaccato della ricerca artistica contemporanea israeliana tra video, fotografia, installazione e pittura. Il lavoro della curatrice è stato estremamente attento e raffinato nel mostrare una carrellata di artisti, eterogenei per tecniche e generazione, che potesse dare uno sguardo obiettivo e vivace sul panorama artistico israeliano. Alcuni nomi tra gli artisti selezionati da Di Veroli sono già noti in Italia per la loro partecipazione alla Biennale di Venezia, come ad esempio Michal Rovner la cui installazione video presentata alla Biennale del 2003, immergeva lo spettatore in uno spazio totalizzante composto da una sequenza interminabile di piccole figure in fila indiana che correvano lungo le pareti. O Yehudit Sasportas che alla Biennale del 2007 aveva presentato un’installazione di grandi dimensioni in cui erano combinati pittura, scultura, architettura e disegno quasi a celare la struttura del padiglione di stampo modernista, creando così uno spazio sospeso e misterioso. Infine la recente partecipazione di Yael Bartana alla Biennale del 2011 con la trilogia video, presentata anche in questa mostra, dal titolo And Europe Will Be Stunned, incentrata sulla riflessione della diaspora, dando luogo ad un vero e proprio movimento socio-politico che affronta temi quali il sogno sionista, l’antisemitismo, la shoah e le rivendicazioni palestinesi. Il percorso espositivo si suddivide nei due grandi padiglioni del Macro Testaccio, all’interno dei quali ogni artista illustra la propria visione di futuro reinventato, mediante l’uso di mezzi e linguaggi artistici diversi che vanno dalla fotografia fino ad arrivare all’installazione spettacolare, equivalente artistico del non-luogo che caratterizza la cultura consumistica globale del nuovo millennio. Nahum Tevet, ad esempio, reinventa il futuro dell’oggetto e della forma lavorando sull’idea di esplorazione dello spazio realizzando, sul crinale tra arte e architettura, una struttura complessa dal design minimale e geometrico. L’opera di Tevet, intitolata Islands è fatta di assemblaggi apparentemente caotici e si compone di molteplici punti di vista che danno prospettive e vie di fuga diverse.

L’installazione Sought City di Yifat Bezalel tende invece verso un luogo sospeso e metafisico. Da qui la realizzazione di due porte fluttuanti intese come varchi di accesso che fanno da quinte teatrali ad un dittico realizzato su pannelli di legno. Mentre l’installazione parietale di Maya Attoun, Moving, attraversa vari linguaggi come la scultura, il ready-made, il wall paper e il suono, continuamente messi in relazione l’uno con l’altro. Infine Shay Frisch crea delle composizioni modulari composte da prese elettriche e luci che tendono ad espandersi nello spazio, in un gioco percettivo fortemente illusorio. Oltre agli straordinari lavori fotografici, come quelli di Adi Nes e di Lea Golda Holterman che indagano rispettivamente la vita militare contemporanea e l’immagine stereotipata dell’ebreo ortodosso, e pittorici come la serie di tele di Meital Katz-Minerbo che recupera ed isola oggetti di massa conferendogli una sorta di monumentalità, va detto che il video è il mezzo artistico predominante della mostra. Abbiamo già citato Rovner, Sasportas e Bartana. Vanno ricordati anche Ofri Cnaani, che si affida alla videoarte per riprogrammare nuove forme di identità religiosa, accostandole alla memoria ed al passato. The Sota project è infatti un video dalla storia enigmatica e inquietante, di due sorelle e delle loro vicissitudini in un contesto fatto di gelosia, tradimento, giudizio, umiliazione rituale e infine la morte. Il tutto utilizzando una tecnica narrativa ispirata agli affreschi greco-romani e agli arazzi rinascimentali. Il video di Boaz Arad, Gefiltefish, è invece un’indagine sociale documentaristica e performativa in cui affiorano temi come le origini e l’identità all’interno di una società, quella israeliana, stratificata e multiculturale. Mentre Keren Cytter concentra la sua ricerca sulla trasformazione del medium creativo e sul suo futuro alternativo trasportando lo spettatore in una dimensione in bilico tra realtà e finzione, a metà tra il documentario antropologico e l’esperimento sociologico. Dalla presentazione di questa mostra si evince come gli artisti israeliani tendano ad affrontare i rapporti tra luoghi e identità mediante l’uso di tecniche e materiali diversi. In uno stato giovane come Israele spetta agli artisti l’onere di saper mescolare tradizione e innovazione, nella realizzazione di lavori impregnati di una memoria storica collettiva che invita alla riflessione e al dialogo, pur non scadendo mai nel citazionismo. L’immagine che Israele offre al mondo è ancora una volta quella di un paese in continua trasformazione, ponendosi sul crinale tra Oriente e Occidente e tenendo conto della complessità culturale e degli aspetti contrastanti che lo caratterizzano. Ne consegue un’arte, come nei casi di cui si è trattato sopra, che parla di geopolitica, di meta-comunicazione, di globalizzazione, di identità e di memoria, argomenti questi che rivestono un’importanza fondamentale nelle ricerche di molti artisti in mostra. Gli artisti, così come i luoghi contemporanei israeliani, dimostrano di aver compreso il senso e lo spirito del proprio tempo. Senza mai distrarsi da uno sguardo rivolto al passato, sono costantemente proiettati verso il futuro.

fino al 17 marzo

Macro Testaccio, piazza Orazio Giustiniani 4, Roma

info: www.museomacro.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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