Itaker

Coraggio e qualità hanno trovato adeguate conferme nell’entusiasmo del fragoroso lunghissimo applauso (quasi 3 minuti) che ha accolto l’anteprima stampa alla Casa del cinema di Roma, il film Itaker vietato agli italiani, debutto del giovane regista siciliano Toni Trupia. Una storia profonda, che traccia un lucido spaccato di una fase storica del secondo dopoguerra di cui si parla poco: quella della seconda emigrazione degli italiani in cerca di fortuna, non più verso gli Stati Uniti, bensì verso l’Europa del centro nord. Il film narra il lato oscuro dei mitici anni ’60, occultato e spazzato dal frastuono del rock e del boom economico. Inizia con garbo, poesia e ironia, la descrizione di un viaggio dall’Italia alla Germania, nel 1962, compiuto da un bambino Pietro (Tiziano Talarico) orfano di madre, partito per ritrovare il padre emigrato, di cui da tempo non si hanno notizie. Con lui, un sedicente amico del padre, Benito (splendida interpretazione del siciliano Francesco Scianna, confrontatosi egregiamente con il dialetto napoletano che connota per tutto il film il suo personaggio), un giovane uomo dai trascorsi dubbi in cerca nella Germania di un riscatto personale.

Sul loro percorso Pietro e Benito incontrano mondi diversi: quello della fabbrica di Bochum, la comunità italiana in città (gli itaker, “italianacci”, uno dei tanti appellativi degli emigrati italiani in Germania); il mondo dei magliari, del contrabbando – fatto di valigie, espedienti e Boss (uno per tutti Michele Placido, nel ruolo dell’impassibile Pantanò)- ed infine quello dell’incontro non sempre pacifico tra italiani e tedeschi. Ma come nasce una storia così d’altri tempi nelle mani di un regista così giovane? «Una forte suggestione mi è arrivata da Michele Placido – dichiara Trupia – che mi aveva raccontato una storia vera, presto divenuta lo spunto del racconto; certo parlare di un tema come l’emigrazione, rivolto al passato per giunta, non era cosa semplice, ma mi sono da subito appossionato all’idea di sviluppare quel pretesto. Le prime motivazioni le ho trovate nella mia storia personale, parte della mia famiglia é infatti in quegli anni emigrata in Belgio. Ricordo di un viaggio in visita ai “parenti lontani” quando avevo l’età del piccolo Pietro, nel benessere che trovammo lassù, rammento lucidamente la sensazione di un profondo isolamento. Con lo sceneggiatore Leonardo Marini e con Michele abbiamo capito che avremmo dovuto legare all’emigrazione un ulteriore tema, quello della paternità e dei legami, non per forza di sangue, ma di vita».

Queste le premesse di una storia all’antica, dai valori autentici, i colori studiati, la magistrale fotografia e scenografia (di Arnaldo Catinari e Nino Formica), per non parlare dei costumi impeccabili (del giovane Andrea Cavalletto) e della musica originale (di Davide Cavuti), troppe doti a quanto pare, sono state la giustificazione al rifiuto del film, pronto al lancio da settembre, da parte di tutti i festival. «Anche il mio amico Muller l’ha rifiutato perché troppo classico – dichiara Placido in conferenza stampa – a Gianni Amelio invece, sembra non gli piacesse il bambino. Ci dispiace molto non esser stati tra gli italiani in concorso a Roma, ma in fondo li avete visti tutti i film in gara. Comunque saremo a Berlino in primavera».

Applausi in sala per le dichiarazioni sincere di Michele Placido, in una doverosa polemica apertasi ai postumi del Festival del cinema di Roma, campione di Vampiri e orrori in senso lato. «Oggi anziché finanziare la politica potremmo sostenere la cultura, per far girare le cose che sembrano di qualità! – dice Scianna prima di introdurre il suo personaggio – quel Benito carico di conflitti interiori è stato una sfida, sono andato a Napoli ho conosciuto i magliari veri, oggi anziani, ho letto e ripetuto tanto Eduardo, e la mia sfida era parlare ed essere napoletano». Impresa ben riuscita, così come per altri attori del cast pugliesi nel ruolo di livornesi, siciliani nel ruolo di napoletani; il film riflette a pieno il sinergico confronto di etnie avvenuto anche in ambito di produzione dove spiccano le partecipazioni dei trentini, il protagonista in primis, che rafforza il contributo dato dalla Trentino film commission, dei rumeni, come la bella e brava Birladeanu, in nome della co-produzione italo-rumena tra Federica Vincenti di Goldenart e Bobby Paunescu di Mandragora, e persino di turchi, inseriti come espediente delicato per parlare di temi importanti quali l’amicizia e la discriminazione. Dal 29 novembre al cinema distribuito da Istituto luce-cinecittà.

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