Il riso di Yue Minjun o dell’impossibilità della singolarità

Davanti al bivio del riso e del pianto, di Jean che ride e Jean che piange, (o di Democrito ed Eraclito, o della commedia e della tragedia), il riso, con Yue Minjun, fa saltare violentemente questa simmetria convenzionale. Mentre le lacrime rappresentano univocamente la tristezza, il riso, in effetti, rinvia, rifluisce verso un enigma;?mentre le lacrime fanno presagire una profondità, il riso, lui, apre un abisso. O meglio: mentre le lacrime invitano a cadere in un’interiorità, e per conseguenza portano a condividere, il riso rigetta verso l’esterno, procede a un’esclusione. Questo è ancora più vero una volta che si è passati in Cina. Si ride forse perché si è gioiosi? O perché si trova comico quello che si ha sotto agli occhi? Se si crede il riso naturale con il pretesto che sia “proprio dell’uomo”, secondo la formula, non si può che verificare, a maggior ragione, davanti ai dipinti di Yue Minjun, quanto il suo portato ma anche la sua motivazione sono culturali. Si ride spesso per dissociarsi. Pare che si approvi, ma per denunciare meglio (lo facevano già i buffoni alla corte del principe). Il riso è maschera.

È anche una strategia del ridere, in Cina, soprattutto della grande risata ripetuta, a bocca spalancata, “haha xiao-xiao”, di cui la mira offensiva è di confondere. Sui primi dipinti di Yue Minjun il riso è ancora vario, modulato, singolare, e di conseguenza espressivo. Lascia intravedere una personalità. Ma quando il riso si fissa in un rictus uniforme, bocca aperta a banana o luna crescente, e gli occhi chiusi – solo dei “ridules” restano abbozzati – questo riso stereotipato fa schermo a ogni sorta d’intenzionalità, alza un muro, proibisce il dentro, blocca ogni sensibilità. Fa mostra, con la sua esplosione a ripetizione, che non c’è più niente da comunicare. Anche la famosa formula alla quale Bergson riconduce il riso casca a proposito, se non perché è, ancora una volta, troppo benigna: il “meccanico” è certo là, in effetti, ma sotto la sua placca il “vivente” è scomparso. Non c’è più inserimento dell’uno nell’altro, la rigidità dell’uno mette in evidenza la mobilità dell’altro. Ma ogni vivente è abolito davanti a questa convulsione generalizzata. L’esperienza e il singolare. Essa è fatta di “differenza e varietà”, dice Montaigne nel suo ultimo saggio svolto sotto questo titolo; è perché, si dice, l’esperienza sfuggirebbe alla generalità del concetto e dunque alla presa della filosofia. Anche di due uova, si possono ancora notare le differenze, “e avendo diversi polli”, nessuno saprebbe dire da quale di questi è deposto ogni uovo. Ora, Yue Minjun ha preso il partito esattamente inverso. Egli scopre ciò che ha d’affascinante – di pauroso – la serie rapportata all’umano. Perché il clone è ripetuto all’infinito. Le sue teste sono uova che non cambiano. Nello stesso tempo che lo deindivindualizza, la serie annienta e maciulla l’io-soggetto. Così, se è la singolarità che fa l’esperienza, è ugualmente vero l’inverso: l’impossibile singolarità sconfigge la possibilità di ogni scavo.

Così che la ripetizione è intollerabile, effettivamente, e non soltanto per qualche ragione di monotonia:?in questo mondo di cloni illimitati, nessuna esperienza potrebbe accadere e svilupparsi. L’unico effetto delle serie non solamente d’essere incatenati gli uni agli altri, come un cumulo di tazze, stratificati gli uni negli altri, ma soprattutto verrebbero meno le condizioni della possibilità di ogni esperienza. Nessun buco dove questa possa raccogliersi, per quanto poco, nessun grano dove possa cominciare ad appendersi […]. Strategia di sovversione, si dirà: questa pittura punta alla denuncia. Denuncia del potere totalitario che tiene gli uomini allineati e costretti ad acclamare; e, più in generale, di ogni ideologia come fenomeno d’impresa che uniforma e dissipa la possibilità del singolo. La pittura di Yue Minjun non fa comunque solo il bilancio delle fratture della storia ma dipinge soprattutto l’impossibilità di costituirsi in soggetto. E questo vale non solo per ciò che si guarda, ma anche per chi guarda. Perché, di fronte a questi visi non-visi, volti manifesti ma svuotati, dove lo spazio è saturato, le procedure di proiezione e d’identificazione sono ben irradiate. L’impresa di soggettivazione gira a vuoto. Se realismo (cinico) c’è, “reale” significa laconicamente: senza possibilità di soggetto. L’io è manifesto, riprodotto ovunque, ma il soggetto non è da nessuna parte.

LA MOSTRA

Antologica a Parigi

Yue Minjun nasce nel 1962 a Hei Long Jiang (Cina) ed è considerato uno tra gli artisti cinesi di maggior spicco nella scena dell’arte contemporanea. Con i suoi personaggi seriali e stereotipati che mostrano un plastico sorriso, vuole polemizzare contro la perdita di ideali da parte dell’umanità, svuotata di ogni individualità. La fondazione Cartier per l’arte contemporanea di Parigi organizza un’antologica, a cura di Maria Grazia Quaroni, per i vent’anni di produzione dell’artista. Il catalogo, edito dalla fondazione, contiene testi di Ouyang Jianghe e François Jullien (di cui l’estratto a fianco), con un’intervista all’artista. Dal 14 novembre al 17 marzo 2013. Fondation Cartier, Parigi. Info: www.fondation.cartier.com