L’isola della morte

Alla riapertura della stagione espositiva di Co2 approda The isle of the dead, prima personale romana di Andrea Dojmi. Citazione o forse vero e proprio omaggio alla celebre Isola dei morti di Arnold Böcklin; l’accesso ad un bunker sotterraneo, realizzato dall’artista appositamente per lo spazio della galleria, attrae a sè lo spettatore, spaesato sin dal suo ingresso, come la barca inesorabilmente diretta verso la buia gola ai piedi dell’isola della morte. La forza d’attrazione che calamita verso il “buco nero”, dalla profondità incerta, è la contraddittoria sintesi della necessarietà di un rifugio che sia al tempo stesso luogo di protezione e di estraniamento. L’artista cita anche Ballard, in particolare in The terminal beach, dove il protagonista sceglie un’isola abbandonata, un tempo utilizzata per la sperimentazione di armi nucleari, quale sua ultima dimora, luogo di catarsi tra angosce terrene e stato di natura. Le immagini in mostra, si presentano composte da strutture ibride costituite da material edili, elementi di sostegno, contenimento e separazione, in grado di richiamare, seppur cortocircuitate, forme e architetture del tutto familiari.

Il lavoro di Dojmi mette in discussione il comune modo di percepire la realtà; le opere, infatti, a un primo impatto meramente istallative, divengono per lo spettatore vere e proprie sculture dai connotati mutevoli in relazione alla carica emotivo-psicologica apportata da ciascuno. Le variazioni interpretative sono la sfida sostenuta dallo sguardo, incapace di cogliere e contestualizzare univoci richiami a forme distinte. Per chi osserva, dunque, il solo piacere di scoprire inaspettate e inconsapevoli associazioni mentali. Del tutto superabili le regole dell’interpretazione semantica dell’opera, ammesso che ve ne debbano essere alcune. Atlantik wall, per esempio, è l’incontro inatteso tra ferro verniciato a mano, legno bardage, manubri di macchine per il sollevamento pesi e cemento.

Elementi nell’insieme promiscui, interconnessi nel corpus di una scultura unica che echeggia l’austerità di una sbiadita trincea. Protagonista indiscussa, una fessura dal vuoto e sul vuoto, che trattiene gelosa, come una scatola nera, la memoria di ciò che è stato; il profondo spiraglio consente, per chi ne avesse interesse e sensibilità, di poter operare una riflessione sulle oscure cause di alcuni capitoli della storia contemporanea. Scoprire uni 7697, invece, è come stringere tra le mani un fossile senza capire perché quel calco inanimato è così radicato nella memoria biologica di ciascuno. La scultura è dominata da una sezione di vetro retinato, elemento architettonico caratteristico delle costruzioni anni settanta, spesso impiegato per separare sezioni di terrazzi o di giardini. Ingombrante ricordo d’infanzia nella mente dell’artista, all’epoca “diviso” proprio da quel freddo materiale dal contatto diretto con i suoi vicini, il comparto di vetro retinato assurge oggi a quella siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ancora corrimano e ringhiere, sono elementi ricorrenti in mostra, appigli fisici, non solo emotivi, cui l’artista si aggrappa per ricostruire monumentali sculture psicologiche.

fino al 24 novembre

CO2, via Piave 66, Roma

info: www.co2gallery.com

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