Ciprì, al sud brilla una stella

La seconda volta di Daniele Ciprì, dopo Era una volta del 2008, passato inosservato ai più, lascia il segno. Accolto più che bene a Venezia, dove ha raccolto meno di quanto seminato, l’uscita nelle sale per la Fandango conferma quello che giustamente è stato definito un piccolo gioiello del cinema italiano. Alla faccia di tanta spocchia e nullatenenza d’autore, di là dal grottesco mascherame specchio dei tempi, là sui destini della cinematografia patria – avrebbero detto al Minculpop – brilla una stella. Quella di Toni Servillo, certo, colonna su cui Ciprì ha ricamato la storia presa dall’omonimo romanzo di Roberto Alajmo. Ma È stato il figlio è storia corale, non s’affida all’interpretazione d’un mostro di conclamata bravura qual è Servillo, per raccontare un’Italia degli anni ’70 antropologicamente più vicina all’oggi di quanto critici & sociologi di vaglia mostrino di vedere. Al sud, in particolare. Roba che se tornasse Ernesto De Martino si rimboccherebbe le maniche a ripartire daccapo per raccontare l’orrore di sempre.

Dai tempi di Cinicotivù e dell’afflato con Franco Maresco la cifra di Ciprì è sempre stata surreale per narrare il reale. E in questo elemento di surrealtà sta tutta la realtà magistralmente narrata dal nostro. Una surrealtà che, essendo appunto l’unica forma di realtà contemporanea, si fa erede del miglior realismo, afferra il testimone della grande stagione del neorealismo. Non è un Brutti, sporchi e cattivi, non solo il capolavoro di Scola che torna, con Toni alla pari di Nino. È quella roba lì più l’uso sapiente e acceso della fotografia, il roteare impeccabile e impietoso della macchina da presa, l’accecante nulla che sovrintende non solo il quotidiano vissuto ma la vita interioriore. È il grande boh – quello chiesto da papà Ciraulo (Servillo) al figlio Tancredi (Fabrizio Falco): ma tu che vuoi fare da grande? Boh – eretto a (in)cultura e sistema. È il luccichìo della roba e dei soldi commisto al culto dell’immagine, il virtuale che spazza il reale. E si fa, appunto, surreale.

Così nell’ultimo spezzone del film, in particolare, mentre matura il colpo di scena finale – finalmente un finale a sorpresa, una storia lineare dove il flashback non è pane gettato ai piccioni – nel truce dialogo di nonna Rosa (Aurora Quattrocchi), scarmigliata a rovesciare la crocchia da silente nonnina in ciocca stregonesca, non è tanto la commedia a virare in tragedia, il comico farsi tragico, quanto un pezzo d’atemporale bravura, di grande cinema. E pare di vederli, Verga e Visconti, alzarsi assieme e applaudire anch’essi, dalle poltrone della sala. Così, alla fine, gli appunti che potrebbero farsi alla sceneggiatura son peccatucci veniali, e pure la scelta di girare a Brindisi una storia impastata di gergalità palermitane, città di nascita del regista, con sottofondo napoletanissimo di Nino D’Angelo, non è una stonatura. Ma solo il grande sud di oggi, di sempre. Il sud che è in noi. Dove brilla la stella di Ciprì.

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