Mondi paralleli

Fare mondi è l’imperativo. Se di mondo, fino a prova contraria, ce n’è uno solo di mondi possibili ce ne possono (e ne devono) essere infiniti. Fare mondi è la parola d’ordine, anche se l’augurio è che in questi nuovi mondi sia il disordine la molla prima dell’azione, la spinta generativa dell’atto. Perché il disordine è sovversione e creatività. È arte insomma dove il fare non è pensare, ma lo presuppone. “Fare mondi” (o meglio Making worlds, Weltenmachen, Construire des mondes, Fazer mundos, con la declinazione della formula in differenti idiomi perché ogni lingua di per sé sottintende un differente concetto) è appunto il titolo, di heideggeriana memoria, dell’esposizione internazionale d’arte, in programma a Venezia negli storici spazi dei Giardini e dell’Arsenale. L’evento che riunisce più di 90 artisti in rappresentanza di 77 partecipazioni nazionali (numero mai raggiunto in precedenza), con 38 eventi collaterali sparsi per Venezia (da sempre terzo concreto polo espositivo) dispone di un budget ridimensionato rispetto alla scorsa mostra di due milioni di euro. Nel titolo di questa cinquatatreesima edizione, c’è racchiusa tutta l’intenzione del direttore Daniel Birnbaum (nato nel 1963, è il più giovane direttore che la Biennale abbia mai avuto) di dare spazio alla fattività dell’atto creativo e alla sua tangibile ragione d’essere. Il curatore svedese, che già nel 2003 aveva affiancato Francesco Bonami nella conduzione dei lavori, sottolinea e amplifica la tendenza, in voga già da qualche anno, di un ritorno al- le arti visive più classiche con la pittura, o meglio l’attitudine pittorica, a fare la parte del leone in termini di presenza, e forse anche di qualità.

La complessa composizione della visione nel lavoro del polacco André Cadere, i richiami geometrici alle fome e al dualismo luce-ombra che caratterizza, ad esempio, il processo pittorico dello statunitense Tony Condor nascono da un’esigenza del vedere che ha radici antiche ma nel contemporaneo trova la potenza della sua espressione. In mostra sono comunque presenti tutte le forme artistiche (installazioni, video e film, scultura, performance, pittura, disegno, poesia e addirittura una parata) in una simbiosi in cui vengono frantumati i rigidi corridoi dei linguaggi univoci e le contaminazioni contribuiscono a far confluire tutte le produzioni artistiche in un unico iperuranio composto da suoni, colori, odori e pa- diglioni, ciascuno da tappezzare con la propria bandiera nazionale che funge da carta da parati. Non mancano paesi che si sono affacciati recentemente, ma con la proverbiale virulenza degli ultimi arrivati, al mondo dell’arte: l’India e la Cina, affiancati da rincuoranti presenze dei molti padiglioni storici della vecchia Europa: dalla Francia di Claude Leveque alla Spagna di Miquel Barcelò. Attese per la presenza di Gilbert & George, Lygia Pape, Jan Håfström, Blinky Palermo. Eterogenea anche l’età anagrafica dei partecipanti, che arriva fino ai novanta dello svedese Yona Friedman, per dare vita a un proficuo dialogo tra giovani e maestri. Due i leoni d’oro alla carriera: John Baldessari, da sempre grande sperimentatore delle potenzialità legate alle produzioni video, e Yoko Ono, controversa icona della cultura popolare. Gli italiani invitati sono dieci: Massimo Bartolini, Rosa Barba, Si- mone Berti, Roberto Cuoghi (inserito all’ultimo momento), Gino De Dominicis, Lara Favaretto, Michelangelo Pistoletto, Pietro Roccasalva, Grazia Toderi e Alessandro Pessoli; la metà degli ospiti del controverso Padiglione Italia. Fischio d’inizio per il succulento derby nostrano.

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