Simone Cametti

Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo un articolo pubblicato sul numero 112.

Classe 1982, finalista all’ultimo Talent Prize con il video Tina, Simone Cametti si interessa da sempre al mondo della scultura e dell’installazione, ampliando il proprio medium d’elezione fino a fotografia, audio e video. In ogni operazione è l’artista stesso, nella propria fisicità, a essere coinvolto attivamente nella creazione, atto performativo che resta latente nel prodotto finale del lavoro.

Il tuo sito internet riporta ”Simone Cametti Scultura” eppure la tua scelta del medium artistico si è declinata in altre forme.
«A dire il vero è stato un mio caro amico di Parigi che, nel progettare il sito, ha deciso di inserire quella dicitura dopo nome e cognome. Ormai di tempo ne è passato, e sono sempre stato molto indeciso se levarla o meno. Sicuramente mi sono allontanato dalla metodicità scultorea di dieci anni fa ma in qualche modo la ritrovo presente anche nei video prodotti, nelle performance, o nei progetti fotografici. C’è sempre un contatto che deriva dai miei precedenti lavori pensati sulla materia, probabilmente questa vicinanza la vedo grazie al processo con cui concepisco il lavoro. La parte di azione che svolgo è sempre molto fisica, faccio diventare il corpo il mezzo con cui dialogare».

La scultura rimane quindi il tuo spunto di partenza nella costruzione dello spazio, che si tratti di suono o di una fotografia. Come descriveresti il tuo modo di guardare?
«A questo proposito mi fa piacere citare un pezzetto estratto da un testo scritto per una personale fatta qualche tempo fa da un caro amico, nonché curatore della mostra.”Fare è la parola che meglio descrive il lavoro e la poetica di Simone Cametti. Le sue opere sono il resoconto di un percorso costituito da azioni, gesti, imprese che documentano l’opera nel suo realizzarsi. Che si tratti di interventi apparentemente minimali o di complessi progetti a lungo termine, a Cametti interessa documentare le modalità tecniche e materiali che fanno l’opera. Opera che, una volta finita, è anche occasione per misurare e valutare la propria resistenza fisica. In un marmo levigato, in una candela dalle forme incerte o in una foto di paesaggio, ciò che interessa all’artista è piuttosto la documentazione della fatica fisica per arrivare a presentare l’opera conclusa. Senza la complessità del prima non esiste il dopo in cui l’artista cancella ogni traccia dello sforzo compiuto”».

Hai mai pensato di realizzare un lavoro che parlasse proprio di quella complessità del prima rappresentando il processo più che l’opera conclusa?
«Osservo il lavoro prodotto come un insieme, mi è difficile valutare la parte documentativa dell’opera come una cosa separata, e generalmente mi riservo la possibilità di lavorare con entrambe. Mi vengono in mente i Paesaggi, grandi scatti realizzati in autunno sulle colline del Parco Nazionale del Gran Sasso. A ogni foto è associato un video della durata di circa un’ora che svela la sostanza decisiva del progetto, invisibile a un primo sguardo: un intervento che mi ha impegnato per molte ore nel dipingere materialmente il terreno, con un pigmento verde specifico per piante, arrivando anche a coprire superfici 4mila/5mila metri quadri. Una lunga azione performativa che, forzando i limiti stagionali, ridefinisce una porzione di paesaggio».

La tua attenzione al paesaggio e, in particolare, alla traccia del passaggio dell’uomo nell’ambiente ricorda molto la pratica della Land Art, mentre le tue installazioni richiamano i ready made. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento?
«Naturalmente penso che Duchamp e pochi altri siano i nostri nonni spirituali, generalmente non amo soffermarmi sul nome dell’autore, ma più sull’opera in sé, sulla comprensione che posso avere immediatamente e la rivelazione che mi dà successiva; dando così più rilievo al processo che a un’identificazione stilistica. Nel tirar fuori i primi nomi che mi vengono in mente, posso sicuramente citare: Vito Acconci, Gino de Dominicis, Michael Heizer, Kazimir Malevich, Kosuth, Walter de Maria e tanti altri…».

Credi esista ancora una volontà di dialogo e confronto tra gli artisti contemporanei o piuttosto prevalga il desiderio di essere indipendenti nel proprio modo di fare arte?
«Dialogo e confronto, sono la linfa vitale di chiunque voglia inserirsi all’interno di un sistema. L’indipendenza artistica non credo sia realmente mai esistita, la ricerca è condizionata da un susseguirsi di immagini, situazioni ed eventi che sviluppiamo a livello globale e che ci unisce tutti».

Stai già lavorando a dei progetti futuri?
«In questo momento sto cercando di attivare un grosso progetto a cui dovrò dedicare parecchio tempo, il lavoro consiste nella riqualificazione di due bivacchi di alta quota, sulla catena dei monti della Laga, sopra Amatrice, luogo in cui ho passato la mia infanzia, e creare cosi una linea, un sentiero, che congiungerà i due rifugi. Il progetto è incentrato su una riqualificazione attiva del turismo, dove l’arte si pone come interlocutore del pensiero nel creare una rete che possa favorire il territorio».

BIO
1982
Simone Cametti nasce il 1 Novembre

2012
Presenta la mostra Propoli alla Galleria Il segno, Roma ed è vincitore del Premio Terna della categoria Gigawatt

2013
Alla 55esima Esposizione Internazionale d’Arte la Biennale di Venezia, partecipa all’evento collaterale Nell’acqua capisco

2016
Espone Anthropocene alla Galleria Riccardo Crespi di Milano

2017
Il lavoro Tina viene presentato al One space One sound 12, Auditorium Parco della Musica di Roma

Info: www.simonecametti.com

TINA
Tina è il progetto con cui Simone Cametti è arrivato finalista al Talent Prize. «Mi ero messo in testa che volevo parlare della vita di un’altra persona». Il personaggio in questione è Tina Allori, una cantante di successo degli anni ‘40/’50, nonché la nonna dell’artista. L’opera è stata presentata all’Auditorium Parco della musica di Roma, in un progetto che metteva al centro la canzone Se potessi riviver la mia vita, testo scritto da Gilbert Becaud e rinterpretato in Italiano da Tina. Il lavoro è presentato su due video che ripercorrono l’azione fatta all’interno della cava di larvikite in Norvegia, dove grazie a un impianto audio installato per l’occasione, e dei microfoni ambientali posizionati all’estremità opposto della cava, l’artista ha registrato la canzone che si amplificava tra le pareti di granito. La larvikite è anche il tipo di pietra scelta dal nonno come lapide per ricordare la moglie. Il singolo è stato riprodotto su vinile in 6 copie: lato A potessi riviver la vita, lato B Nuvola per due.