Manifesta: bella, attuale e tattica

Mentre mezza Europa grida contro l’emigrazione e l’altra mezza prova a rispondere per tutelarla, a Palermo è partita Manifesta, l’edizione numero 12 di una kermesse itinerante che, tra gli eventi d’arte contemporanea, è considerata una di quelle a maggiore vocazione politica. Il che dimostra un assioma di questo mondo e cioè che la grande arte è quella che anticipa gli eventi, che pone attenzione e fornisce spiegazioni originali su ciò che occhi comuni non riescono a comprendere e a spiegare bene. Palermo, con il suo bagaglio di storia, con la sua ubicazione geografica, con la sua eredità culturale è la polis perfetta per celebrare l’idea di spazio e di appartenenza. È un luogo-non-luogo nel senso aristotelico di spazio fisico, laddove esistere significa trovare posto, sapere stare al mondo. Lo spazio da intendere come forma in cui avviene l’incontro tra gli esseri umani e le cose. In un momento storico in cui il tema delle migrazioni è centrale nel dibattito politico internazionale non poteva dunque esserci sede più adeguata per affrontare una questione dalla quale alcuna narrazione contemporanea seria può prescindere. E Palermo si è preparata bene. Già il titolo di Manifesta, Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza, dimostra una certa lucidità politica, perché coltivare e coesistere sono due parole chiave del concetto più grande di sostenibilità che rappresenta l’imbuto filosofico ma anche pragmatico di tanti processi culturali ed economici di questo inizio del nuovo millennio.

Il progetto curatoriale di Manifesta 12 è di OMA (Office for Metropolitan Architecture), uno studio fondato nel 1975 dagli architetti Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis insieme a Madelon Vriesendorp e Zoe Zenghelis. Il coordinatore della kermesse è l’architetto siciliano Ippolito Pestellini Laparelli, uno dei nove partner dello studio OMA. Con lui ci sono gli altri Creative Mediators, vale a dire la svizzera Mirjam Varadinis, interna al Kunsthaus di Zurigo e co-curatrice di TRACK (Gand, Belgio, 2012), l’architetto e artista spagnolo Andrés Jaque, fondatore dell’Office of Political Innovation, e la regista e giornalista olandese Bregtje van der Haak. In tutto sono esposti 20 lavori, ubicati naturalmente in luoghi iconici. Alcuni di questi risultano particolarmente felici proprio perché colgono centralità e contraddizioni dei temi la cui storia è scritta col sangue sulle strade di Palermo. La video istallazione di Uriel Orlow, Wishing Trees mescola con sapienza argomenti conflittuali come l’attivismo antimafia e la migrazione. Jelili Atiku, performer che arriva dalla Nigeria, produce una miscela ardita ma efficace della tradizione popolare del suo paese unita ai riti del localissimo festival di Santa Rosalia, una contaminazione che entra in un solco noto ma non per questo meno efficace. Ma, come dicevamo, la vera protagonista rimane Palermo che con le sue beltà e le sue bruttezze ha evidentemente catturato lo sguardo degli artisti. L’Israeliano Khalil Rabah, ad esempio ha realizzato una brillante video-installazione sui mercati della città, il collettivo belga Rotor di architetti-designer ha invece dato luce a Monte Gallo, un progetto ispirato e dedicato a Pizzo Sella, un pezzo a loro giudizio emblematico della costa palermitana proprio perché offre una visuale diversa nel rapporto tra uomo e paesaggio. Ma anche “Palermo Procession” di Marinella Senatore, una performance urbana di rara intensità che è riuscita a coinvolgere tanti palermitani, o il l’opera della brasiliana Maria Thereza Alvez che a Palazzo Butera ha proposto una efficace e delicata ricerca sul sincretismo floreale siciliano. Manifesta 12, insomma certifica ulteriormente, se mai ve ne fosse ancora necessità, che in Italia il contemporaneo non ha problemi di spazi ma di contenuti. Tra musei, gallerie, luoghi d’arte vari e intere città (vedi appunto Palermo) il nostro paese ha possibilità espositive infinite. Il tema sono invece i contenuti. E qui non sempre le cose vanno come andrebbero. Non di rado si indulge su ruoli decorativi per gli artisti o, peggio, si ricorre alle “provocazioni” culturali come riti ormai triti di autoassoluzione sociale ed opportunismo mediatico. Si toccano cioè temi (emigrazione e ambiente per altro sono tra più gettonati) di grande attualità e di forza intrinseca proprio per dare al contemporaneo un ruolo politico, con una spiccata propensione alla denuncia. E in questo senso anche a Palermo si registra qualche strizzata d’occhio tattica verso temi da “duri e puri”, senza che poi le esecuzioni siano all’altezza della missione. Resta quindi il tema di fondo che è appunto quello dei contenuti. Occorre investire di più sugli artisti, sui curatori, sugli organizzatori di eventi culturali per produrre lavori alti, sperimentali, innovativi. E quando poi si arriva a scomodare la forza politica dell’arte occorre farlo in modo potente, qualitativo, coraggioso e non solo di facciata. L’Italia ha la possibilità di farlo. Ha il talento necessario. Ma il talento occorre aiutarlo, dargli opportunità importanti di visibilità, di accesso alle ribalte internazionali. E in questo senso anche a Palermo si poteva fare di più.