Nicola Rotiroti, Lo Re

Nicola Rotiroti nasce nel ‘73 a Catanzaro dove frequenta l’Accademia di Belle Arti sotto la direzione di Tony Ferro ricevendo l’insegnamento di Salvatore Brancato e Luigi Magli. In accademia si interessa anche alla scenografia, alla scultura, alla decorazione, perché si accorge che la pittura per lui è una questione privata che alimenta da solo a casa. Grazie all’esperienza di osservatore in uno studio dentistico capisce che può utilizzare una gomma siliconica, con cui di solito si fanno le protesi dentarie, per scolpire: Tony Ferro gli concede tutto un piano dell’Accademia dove lui realizza calchi di bocche e nasi di tutte le persone che incontra lì, realizza circa 1500 nasi e 6000 bocche in gesso con cui riempie lo spazio. Tornato dal militare da vita al Gruppo senzà: usando l’immondizia lasciata sulle spiagge di parte della costa calabrese Rotiroti insieme agli altri componenti del gruppo crea animali giganti coinvolgendo anche i bagnanti, tanto che gli concedono per un periodo di trasformare il Castello delle Castella attraverso mosche, lucertole, balene, elefanti giganti. Ma quando si manifesta in lui la volontà di rendere pubblica quella che sente essere una questione privata, la pittura? Quando non riesce più a contenerla: inizia a dipingere enormi facce ispirate ai ritrovamenti dell’isola di Pasqua, nascono faccioni alieni, anche di forma fallica, molto densi nella tecnica e nella visione, realizzati su carta da spolvero di grandi dimensioni fino a sei metri. In un perdersi nella dimensione del sublime che si alimentava anche grazie ad una sorta di paura.

Dopo questa esperienza Rotiroti sente il bisogno di tornare alla realtà, seppur filtrata, in qualche maniera: inizia a fotografare le persone che si trovano intorno a lui, i suoi affetti, vestiti, sott’acqua, per poi dipingerli iperrealisticamente. «Cercavo – spiega l’artista – di autosedurmi attraverso la ricchezza della luce nella dimensione acquatica , come se vivessi all’interno di uno specchio ripetuto, creando immagini in cui l’elemento fluido trasfigura, amplifica e da una somma di visione. Ho incominciato ad amare l’aspetto rituale e liturgico che mi impone la pittura con i suoi tempi, e che mi tiene ancorato ad una realtà anche se convenzionale, comunque oggettiva, che posso condividere con tante altre persone». Anche per questa volontà di condividere fonda, nel 2006, Studio ‘54 a Tor Pignattara dove ha sperimentato e tutt’ora sperimenta il confronto creativo con altri artisti. Due anni fa invece fonda Spazio Y con Paolo Assenza, Arianna Bonamore e Germano Serafini, un centro espositivo non convenzionale al Quadraro vecchio, basato sulla reciprocità dialettica tra artisti, curatori e addetti ai lavori del mondo dell’arte e della cultura. L’esperienza pittorica successiva ai quadri iperrealisti porta Rotiroti a vere e proprie distorsioni, dalle sue parole: «volevo scardinare il sigillo oggettivo della fotografia – continua l’artista – attraverso un immergermi in una dimensione automatica e inconscia, attivando una mia memoria che potesse legittimare qualcos’altro rispetto a quello che vedevo all’interno della fotografia, mettendo informazioni più legate al mio emisfero emozionale».

Nasce adesso una nuova ricerca nella propensione alla sacralità, con i quadri presenti nella personale Lo Re alla galleria Rosso20sette Artecontemporanea di Roma a cura di Paolo Aita, mostra dedicata a un artista che ha lasciato un vuoto sacro. Qui Rotiroti affronta la pittura ispirandosi a chiese romane: insieme alla ricerca di sacralità vuole andare a scavare nelle budella, nella pancia, per questo sceglie chiese barocche: «Secondo me l’unica forma artistica di eleganza che si possa avvicinare alle budella è la forma assoluta del Barocco». Allora, la mattina presto, con l’amico Francesco Mandica e con la macchina fotografica, per fotografare non si sa che cosa, si reca a Santa Maria della Vittoria, a Sant’Ignazio, a Sant’Agnese in Agone, a Sant’Andrea della Valle, a San Francesco a Ripa, a San Luigi dei Francesi. Nelle chiese si respira sia l’aleggiare della morte, della fine, presente spesso in vari simboli, sia una tensione verso la rinascita in altri simboli e nella luce che filtra dalle finestre. Così nei quadri di Rotiroti convivono morte e resurrezione: all’interno dei dipinti, fatti di queste tonalità scure e pastose, che si ricollegano al concetto mortuario, spiccano però interventi con la foglia d’oro allusivi alla luce, al concetto di rinascita, in una sorta di dualismo. È come parlare della sofferenza e alleviare la sofferenza allo stesso tempo. Si potrebbe poi dire che il colore è il rituale, mentre la luce è la spiritualità, nel contrappunto fra la ritualità cristiana molto farraginosa nelle sue litanie che si ripetono sempre uguali, e la presenza dell’elemento luminoso che, quando attraversa le volte e le absidi e le cappelle, crea un senso di elevazione. L’artista aggiunge: «In me c’è poi una dimensione arcaica nella volontà di trasmettere un messaggio sacro tramite la parola. C’è il mio tentativo di poter tirare fuori dalle distorsioni che realizzo delle lievi calligrafie automatiche accentuate dalla foglia d’oro, inconsce, e che grazie alla forma suggeriscono l’andante della scrittura per riuscire a contenere un tempo assolutamente morto o altro nella visione, tentando di dargli un referente fisico, oggettuale e materiale nel rapporto fra materia ed elevazione – prosegue – altro passaggio è nella fluidità che accentua la memoria dello scorrere del tempo nella capacità di rompere un sigillo».

I quadri di Rotiroti si esplicano senza luce nella sostanza di colori scuri mentre si rivela un’epifania improvvisa dell’immaginazione nella foglia d’oro, come una persona diventata cieca che riprenda a vedere. Dalle parole di Paolo Aita: “In realtà tutto questo barocco non è che l’esaurimento dei tentativi di dire un visibile, che rimane in ogni caso sfuggente, e che si cerca di conoscere tramite queste opere che mettono in scena una saturazione. La visionarietà (che ha sempre un elemento di utopia) di queste opere consiste nell’intervenire in quel nodo che unisce spazio e architettura, vuoto e solido”.
Fino 10 giugno 2016 Rosso20sette Artecontemporanea via dell’Orso 27 Roma; Info: www.rosso27.com