Italiani a New York

”Il Postmodernismo è morto – afferma Nicolas Bourriaud – e sta emergendo una nuova era di modernità basata sull’ incremento di comunicazioni, viaggi e migrazioni che condizionano il nostro modo di vivere. Multiculturalismo e identità stanno per essere superate dalla creolizzazione: gli artisti oggi partono da uno stato di cultura globalizzato. Questo nuovo universalismo è basato sulle traduzioni, la sottotitolatura, il doppiaggio. L’ arte di oggi esplora i legami che testo e immagine, tempo e spazio intrecciano fra loro”. Le parole di Bourriaud sottolineano in modo esemplare la rivoluzione estetica e culturale che il mondo attuale, specie nel settore artistico contemporaneo, sta vivendo. New York è il centro d’eccellenza che rivela ogni sintomatico cambiamento, nel suo ricco e complesso tessuto metropolitano, artisti, curatori, galleristi e critici tengono in mano le redini del mercato internazionale, stabilendo senza mezzi termini le influenze estetiche dominanti. Un macrocosmo così complesso diviene al medesimo tempo il contenitore privilegiato per poter esportare nuovi e ambiziosi progetti di un multiculturalismo differenziato e pronto ad accettare nuove sfide. É il caso di due giovani curatori originari di Napoli, Giuseppe Ruffo e Anna di Falco, che con spirito di innovazione hanno creato a New York la Without Paper Gallery (Wop), uno spazio dedito al contemporaneo, che oggi apre ufficialmente al pubblico, e che si propone di crescere in seno all’esigenza di creare una realtà in continua trasformazione, vista anche la matrice temporanea del suo insediamento. Abbiamo raggiunto i due giovani curatori a New York, che ci hanno chiarito le motivazioni delle loro scelte curatoriali e stilistiche.

Un luogo ai margini di New York diverrà il contesto privilegiato per narrare una dimensione contemporanea. Che cosa ha spinto due giovani curatori italiani a dar vita a una realtà espositiva come Wop?

«Wop nasce dall’idea di condurre gli artisti in un processo di crescita e visibilità aiutando il lavoro dell’artista a stabilire una rilevanza sociale e politica. A nostro parere l’arte deve esser in grado di dimostrare un qualcosa che vada al di là della struttura fisica dell’opera stessa, che sia in grado di rendere lo spettatore consapevole e partecipe della narrazione artistica».

Il nome che avete scelto per il vostro spazio temporaneo espositivo Whitout paper gallery contiene già in sè una volontà di intenti. Quale scopo vi siete prefissati nella realizzazione di questo contenitore espressivo?

«Wop deriva dall’ acronimo di without paper termine dispregiativo utilizzato per identificare gli Italiani che nello scorso secolo, senza documenti, emigravano negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Ai nostri giorni la situazione è completamente cambiata ma le radici della cultura italiana si sono radicate e rigenerate nella cultura Americana. Lo scopo di Wop è di sostenere progetti di cooperazione internazionale mettendo in relazione con diverse entità culturali, locali e internazionali, operando con la tutela e rispetto di esse».

Quali scelte stilistiche contrassegneranno il vostro lavoro? Quali urgenze vi siete prefissati inserendovi nel complesso tessuto urbano newyorkese?

«Il nostro interesse è concentrato sul presente, quello immediato, che consideriamo fondamentale per lo sviluppo dell’arte. Per noi l’arte definisce l’arte. L’artista crea il lavoro, ma è compito della società farlo diventare un’opera d’arte. Abbiamo pensato di renderci i coproduttori dell’arte, nel senso agire come catalizzatore per l’artista, aiutandolo nella trasformazione del lavoro in un’opera d’arte. Creando così il modo di dimostrare che l’arte può evolversi attraverso il modo in cui viene recepita, e non è detto che un opera sia definita tale solo perché presente in una grande istituzione».

È vostra intenzione concepire l’area di New York al di fuori dei canonici contesti a uso e consumo del mercato artistico contemporaneo o lo scopo è di conquistare mano a mano una fetta di quel territorio che ogni artista, curatore e gallerista internazionale vorrebbe raggiungere?

«La nostra intenzione non è battezzare stili o movimenti. Vorremmo che l’arte avesse un significato in sé. Spesso le istituzioni sono lontane dagli artisti e celebrano se stessi e i loro benefattori. Per noi è importante evitare strutture statiche a favore di strutture flessibili che corrispondono ai bisogni reali. La nostra scelta, da un lato, è legata al tipo d’arte a cui ci interessiamo e dall’altra al nostro approccio o analisi del mondo dell’arte. Influenzati dalla vecchia corrente curatoriale e da un principio potestas ad utrumque di libertà che ci conduce ad allontanarci dal posto fisso. Normalmente visitare un’ esibizione a New York significa andare in spazi d’arte consacrati come gallerie o musei, dove la visita si svolge in automatico, una routine. Un luogo che ha a che fare con quello che si vede o quello che si aspetta di vedere. Ed è proprio questo che ci ha portato a pensare a possibilità diverse. Pianificando una serie di mostre senza esser soggetti a spese continue per mantenere uno spazio permanente e alle limitazioni delle autorità istituzionali».

Parlare d’Italia nella Grande Mela diviene un compito arduo, specie sotto il profilo culturale contemporaneo, in questo senso Wop diverrà anche un vessillo made in Italy o la vostra scelta è “radicante” come Nicolas Bourriaud ha definito recentemente in suo saggio la possibilità per un artista di non appartenere ad una specifica nazione?

«Parlare d’Italia sotto il profilo culturale contemporaneo non è nostro compito o responsabilità, lasciamo la risposta alle politiche culturali del paese, ai musei, istituti e grandi eventi. Ma precisiamo che Wop cerca di mantenere le proprie radici sia con L’Italia che con la nostra città di origine, Napoli. E in relazione alla stessa, fondata dalle Polis greche, ricordiamo che furono le prime entità a tutelare e rispettare i diversi canoni stilistici presenti nelle rispettive città Stato nonché fondatori del termine cosmopolita utilizzata per la prima volta dal filosofo Diogene di Sinope detto il cane. Secondo il quale l’uomo era cittadino del mondo ed indipendente dalla società».

Estetica allineata o contaminazione? Che cosa rivelerà Big Bang primo progetto espositivo di Wop?

«Ai giorni nostri non è sempre semplice definire se un’estetica sia allineata o contaminata, secondo il nostro parere una corrente estetica di potere delinea la società moderna soffermandosi su un aspetto che sembra esaltare una politica-arte-iconologia. Si tratta dunque di una questione fondamentalmente etico-morale, che ognuno di noi dovrebbe affrontare con gli strumenti che possiede e che gli competono. Nel nostro caso con il nostro primo progetto: Big Bang: Art Room, strutturato per rivendicare un’identità artistica capace di esser generata da una forza creativa, libera da vincoli fisici e barriere ostruenti diamo voce alla nostra idea. Dimostrando che anche lo sviluppo di un progetto espositivo in un luogo marginale può sottolineare l’evoluzione dell’arte e la percezione della necessità di una società dove l’artista stesso inizia a raccontarsi accettando di esser letto secondo la propria grammatica, facilitando spesso la comprensione, fornendo segnali sulle loro pratiche creative, sulla loro progettualità, sulle loro motivazioni, anche nella condizione di veloce transitorietà, che nella mobilità accresciuta può essere anche una pausa per un obiettivo che è pur sempre in movimento. Per questo la scelta dei nostri artisti è ricaduta su Dejan Klincov, Virginie Marchand, Sarah Van Hoe che con i loro lavori rispecchiano il concept presentato nella nostra prima esibizione».

Inaugurazione 29 maggio, Wop: without paper gallery, 455, Tompkins Ave, Brooklyn; info: www.withoutpapergallery.com

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