Tosatti, 2_Estate

A Napoli è stata presentata la terza tappa del progetto Sette stagioni dello spirito di Gian Maria Tosatti, 3_Lucifero. Vi riproponiamo la nostra intervista con l’artista realizzata in occasione della seconda tappa del progetto 2_Estate, lavoro vincitore del Talent Prize 2104.

Nessun al di là del bene e del male perché non esiste superuomo. L’opera di Gian Maria Tosatti non ha bisogno di eroi come il beato paese di Galileo. Il soggetto dei suoi lavori è l’uomo, non Dio, non la verità. L’al di là per definizione è fuori luogo, e un luogo fuori non è concesso nelle opere dell’autore che riporta il centro sull’umanità, come un uomo rinascimentale tirava le sue linee sul fuoco della prospettiva centrale. Anche senza fughe non c’è miseria umana se c’è consapevolezza, perché il male più grande è non sapere dove il bene comincia. «Il progetto Sette stagioni dello spirito – dice Tosatti – è una domanda a cui voglio dare una risposta: i limiti del bene e del male nell’uomo. La mia paura più grande, come quella di René Daumal nel Monte analogo, è di morire senza sapere perché sono vissuto. Uno dei problemi reali dell’umanità è aver smesso di cercare risposte alle domande assolute finendo per diventare alieni, qualcosa che non è umano».

L’installazione vincitrice del Talent Prize 2014, 2_Estate, fa parte di Sette stagioni dello spirito. Perché hai scelto Napoli come teatro?

«Il fondo del male, l’altezza massima del bene e tutti i grigi del caso, sono una domanda immensa. Per affrontarla avevo bisogno di una metropoli che fosse un mondo, avevo bisogno dell’intera spettrografia umana e Napoli, almeno dell’Occidente, è l’unica che non è una città ma un mondo intero».

Sette le stagioni dello spirito, come mai?

«Arrivato a Napoli, come guida per la città, scelgo Santa Teresa d’Avila, autrice del Castello interiore. Il libro divide l’anima dell’uomo in sette stanze, dalle più periferiche, abitate dal male più profondo, a quelle dove c’è la massima altezza, intesa in una prospettiva religiosa. D’Avila mi ha fornito una struttura in grado di guidarmi in un oceano così ampio che la domanda del progetto presupponeva. Ecco le sette opere da realizzare in un tempo preciso: tre anni».

La Peste è la prima tappa, perché?

«La peste è una stagione della storia che arriva e falcia una generazione. La città mi ha fatto capire cosa è la peste oggi: l’inconsapevolezza, il limite estremo del male che cercavo, da lei non c’è redenzione, non puoi pentirti di quello che non conosci. Non è una critica a Napoli ma alla società che in determinati luoghi, come nelle periferie, distrugge l’umanità, l’inconsapevolezza prende il sopravvento, annulla l’uomo che diventa animale. Per la tappa abbiamo anche affisso editti numerati, timbrati uno per uno e vuoti. L’editto identifica e comunica un problema, quando non sai qual è, hai scoperto lo stato dell’uomo contemporaneo: sofferente ma ignorante del suo male».

Con la Peste hai trovato il fondo del male. E con Estate?

«In Estate ho capito che il male non esiste: non fare il bene è il male. Nella Divina commedia, per esempio, nessuno fa il male per il male, neanche nell’inferno: i condannati errano nel fare il bene, Paolo e Francesca hanno sbagliato per amore, Ulisse per conoscenza. Non fare il bene significalasciare che il male si compia, questo è Estate, un lavoro sull’inerzia. La tappa è sulla storia dell’Italia che ha perso la sua identità. L’installazione è stata realizzata infatti nel primo ufficio dell’anagrafe italiano, ufficio poi abbandonato e lasciato degradarsi. Di solito si fa una metafora per parlare dell’Italia, qui si parla dell’Italia per trattare l’uomo. Estate è analizzare uno stato dello spirito: lasciare che le cose vadano male, lo facciamo tutti. Fare il bene invece significa essere argine costantemente, perché o fai sempre il bene o in qualche modo, per inerzia, fai il male».

E il pubblico?

«La “cosa” all’ufficio dell’anagrafe, così i napoletani chiamano Estate. Se la trovano davanti senza sapere che è un’opera d’arte, così come per Peste. Per entrambe abbiamo semplicemente aperto le porte dei due edifici senza coinvolgere il mondo dell’arte. Nessuno sa che sono opere, eppure vengono a vederle, ne hanno bisogno. È bellissimo fare le “cose” perché nessuno si interroga sul loro significato: è una “cosa”, la vita è fatta di “cose”. Credo che un lavoro non si debba capire ma in qualche modo vivere e comunque se non si capisce non è colpa dei visitatori. L’arte, la poesia e la musica sono e devono essere universali. Per questo dico sempre: l’arte non ti fa impiccare perché rende tangibile l’immensità dell’uomo»

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