Resilienza Italiana

La resilienza è la capacità di resistere senza spezzarsi, quell’atteggiamento consapevole di superare le avversità, di sovvertire un momento negativo beneficiando di un senso lucido di adattamento. Resilienza Italiana è un movimento culturale nato all’incirca un anno fa da un’idea di Ilaria Bignotti, storica dell’arte, critica e curatrice, e di Francesco Arecco, scultore, naturalista e avvocato, che hanno costruito con l’aiuto di artisti e addetti ai lavori una profonda rete di scambio che in un certo senso cerca di sovvertire il clima culturale del nostro paese. Un movimento, che come recita il manifesto, ha come obiettivo principale quello di donare dignità agli artisti, di ”ripensare le persone, la cultura e l’arte nel contemporaneo”. La resilienza diviene dunque un nuovo sinonimo di contemporaneità, un modus operandi che genera inediti linguaggi e che vede nella resistenza un fattore necessario di crescita e sviluppo. In una lunga intervista a Bignotti e Arecco coadiuvati da Giacomo Ghidelli, scrittore, esperto di comunicazione e direttore della comunicazione del movimento, abbiamo cercato di comprendere il senso profondo di questo progetto ambizioso, sondando i concetti che sono alla base della natura costituiva della Resilienza.

”Un movimento d’arte, un vero moto per la rinascita della cultura italiana”. Così recita il primo passo del manifesto di Resilienza Italiana. Che cosa significa diventare resilienti?

Ilaria Bignotti: «Nel periodo di assoluto cambiamento e messa in discussione di qualsiasi presupposto, anche etico, crediamo che vivere un processo di resilienza sia naturale e necessario per poter reagire e costruire. Gli artisti, è inutile che lo dica, lo disse Oppenheim un bel po’ di anni fa, sono sismografi del loro tempo. Lo sono ancora. L’arte di oggi è viva, è fertile, è arrabbiata, è appassionata. Resilienza italiana raccoglie e rielabora questi movimenti tellurici».

Francesco Arecco: «Molti di noi sono già resilienti, e nella propria singolarità coltivano la ripresa, culturale ed economica. Aderire al movimento significa voler mettere a sistema questa caratteristica. Significa voler condividere progetti, dare idee agli altri e, cosa più difficile, accettare idee dagli altri. Dato che il movimento è un puro moto di intenti e non ha forma giuridica, non occorrono associazioni o formali ingressi. Come succedeva un tempo, per far parte del gruppo, occorre conoscersi e sviluppare qualcosa insieme. Come scultori, il movimento parte da lì, o come artisti o persone di cultura in genere. Il movimento ha infatti due anime. La prima è un nucleo di scultori e che porta avanti una approfondita lettura della realtà tramite la propria indagine, concentrandosi sul valore dei materiali in relazione al territorio e all’identità. La seconda è un più esteso movimento culturale che sviluppa progetti di valorizzazione culturale dei fenomeni di resilienza in Italia e all’estero».

Recentemente il movimento ha compiuto un anno di vita, quali sono stati gli eventi più significativi che hanno segnato questo primo periodo di attività?

I.B. «L’evento più significativo è quello che viene progettato subito dopo quello precedente. Non è una risposta sibillina, ma credo rappresenti bene quel che ci è successo, poco dopo esserci incontrati e avere discusso. Il rifiuto del sensazionalismo, l’abbandono di una semplice spettacolarizzazione, la volontà di voler dialogare con il pubblico senza fare assolutamente progetti demagogici ci ha portato, nei mesi, a intrecciare valide relazioni umane con persone e istituzioni. Siamo nati come movimento l’11 dicembre 2013, a Milano, poco dopo essere stati selezionati tra i progetti dedicati alla scultura internazionale contemporanea da Sculpture Network, una piattaforma che si occupa della promozione e della ricerca sulla scultura e che ha base a Monaco di Baviera. Il 2014 ci ha visto quindi avviare i dialoghi a Milano e poi a Torino, con il progetto Resilienza italiana. Punti di partenza, tenutosi rispettivamente nello Spazio Giva e al Parco arte vivente. La prima sede è fondata da Giulia Caccia Dominioni, fashion designer, a dimostrazione di quella continuità di sensibilità verso l’arte contemporanea della famiglia Caccia Dominioni-Panza di Biumo che da subito è stata nostra mecenate. La seconda è un centro sperimentale di ricerche tra arte e ambiente, nota a livello internazionale, un luogo dove la scultura resiliente verifica la propria lingua e potenzialità. A fine anno, grazie a una vera e propria rete di dialoghi elaborata nel corso di oltre 8 mesi, abbiamo presentato la mostra Reti di resilienza, progetto itinerante in dialogo con artisti siciliani dell’Archivio Sacs., alla Galleria d’arte moderna e contemporanea palazzo Belmonte Risto a Palermo. E parallelamente a queste e ad altre mostre nelle quali sono stati coinvolti alcuni tra gli artisti del movimento, abbiamo fondato la collana Resilienze con le Edizioni Mimesis, una collana a doppio filo di saggistica e cataloghi d’arte: i primi nati sono stati il catalogo per Emilio Isgrò in occasione della sua mostra al Centro Pecci Prato e il libro Resilienza italiana. Dialoghi e riflessioni. Abbiamo coordinato il Concorso Internazionale Segreen Art Workplace, in collaborazione con Panza Collection, finalizzato ad avviare un processo resiliente di inserimento di opere d’arte pubblica negli spazi di lavoro di Segreen Business Park. E poi ci sono state le partecipazioni ai convegni, tra i quali quello organizzato dalla scuola di Tam-tam alla Triennale di Milano e dedicato al tema e alla mostra Abiti da lavoro, alle fiere d’arte contemporanea, con progetti selezionati ad ArtVerona e ora a SetUp 2015».

Quali obiettivi vi siete posti nel concepire un progetto così ambizioso e soprattutto qual è lo scopo insito nel vostro lavoro?

F.A. «Abbiamo deciso di ridare valore alla responsabilità degli operatori della cultura. L’artista deve operare non come decoratore o scenografo ma come (sto pesando le parole): I) persona II) che prende posizione III) è responsabile di tali scelte e IV) le esprime con la sua opera. Sia scultura o altra arte. Chi attorno all’arte si muove deve parimenti (ripesiamo le parole): I) studiare seriamente, II) scegliere e criticare, III) esprimere responsabilmente il proprio pensiero. Insomma, essere uomini e donne davvero e non figuranti del settore».

G.G. «E ricordo, tanto per aiutare a chiarire quale sia il peso delle parole utilizzate da Arecco, che la parola responsabile deriva dal latino respondeo, rispondere. Rispondere ai nostri interlocutori delle conseguenze delle nostre opere, dei nostri giudizi, delle nostre azioni e delle nostre scelte. È il senso della nostra eticità. Ma è anche la denuncia del nostro essere coscienti che nulla è mai del tutto innocente, perché un po’ di commistione con qualcosa di poco definito (non si può prevedere tutto e sino in fondo) che potrebbe non essere del tutto etico c’è sempre. La cosa importante, però, è esserne consapevoli. E agire di conseguenza».

Si parla di frequente di una perdita d’identità del nostro paese, di una crisi culturale ed educativa, come si pone in merito il movimento resiliente?

F.A. «La crisi culturale è generale. In Italia si sente di più perché abbiamo una storia più ricca. Ma il mondo non è quello descritto dai media: i valori e i tesori culturali ancor oggi custoditi da collettività e singoli sono immensi. Soltanto che se ne parla poco. E la poca evidenza fa sembrare che non vi siano. L’altro giorno un caporedattore di un quotidiano, di fronte alla domanda sul motivo in base al quale i giornali trattino quasi esclusivamente cattive notizie e descrivano la realtà come impoverita, ha risposto: ”Sui quotidiani ci imponiamo di raccontare solo quello che avviene giorno per giorno, e abbiamo a disposizione solo poche notizie positive. Anche chi fa approfondimento segue poi a ruota”. L’insegnamento che una simile risposta ci dà è che, pur tenendo conto di un po’ di macabro privilegio dato a ciò che va male, è vero che oggi ci sono più novità negative che positive. Anche e specie a livello culturale. Sta a noi generare occasioni positive da discutere nella comunità culturale. Lo scopo del movimento, sotto questo profilo, è di generare prese di coscienza di valori e potenziali, sviluppare occasioni di lavoro di qualità e di cuore, sia per chi opera nel movimento sia per chi può avere un confronto con esso. Inoltre, anche il solo parlare della resilienza che vogliamo generare, ha un effetto positivo. Spesso anche il solo fatto di dire sarò buono è un passo importante, specie in gruppi sociali in cui prevale il fascino del sarò cattivo. A prescindere dalla simpatia per la chiesa che ognuno di noi ha o non ha, l’elezione di un Papa dichiaratamente buono come Francesco è stata una svolta epocale per una chiesa che da tempo privilegiava il carisma impositivo. Questo Papa dice sarò buono. Anche se non lo facesse o non lo facesse subito, la dichiarazione resta importante e indirizza il cammino di molti».

G.G. «Ciò che ha detto Francesco ha una importante implicazione. Resilienza significa partire dalla situazione data: prendere coscienza della situazione in cui siamo e ripartire fornendo al mondo e ragionando con il mondo su notizie buone. Un modo di fare che non si attarda nella critica teorica dell’esistente, ma che di ciò che non funziona, o che si pensa non funzioni, fa una critica pratica con interventi e opere diverse. Abituarci a pensare e a fare ciò a cui non siamo più abituati, proporre ciò che non viene proposto, spostare il nostro punto di vista. Credo che questa possa essere una preziosa indicazione del movimento».

”La scultura è presenza, immanenza e impegno”. L’approccio resiliente è molto vicino alla matrice plastica e scultorea che afferisce al contemporaneo, sei scultori hanno deciso di far parte del movimento, qual è la ragione fondante che ha innescato la volontà di incentrare un focus sulla scultura?

I.B. «La scultura è resiliente per antonomasia: come disciplina artistica, anche a livello terminologico il suo nome resiste nei secoli, fino a oggi, senza essere scalzato da altri; resiste perché è difficile, difficilissima: chi la pratica sa che sta facendo un lavoro pesante, nel senso più profondo del termine, da pesare, pensare bene, e lavorare a lungo. Il primo nucleo di scultori del movimento sperimentano materiali focali: lungi dalle installazioni tout court, dagli assemblaggi di oggetti, costruiscono e lavorano le materie: legno, cemento, materiali industriali, ferro e metalli. Mettono a prova continua la tenuta della loro ricerca attraverso un porre domande e trovare soluzioni che si fa metafora del dover essere al mondo oggi».

F.A. «Lo scultore modifica con il proprio corpo una materia che assume corpo. Materno, in questo senso, lo scultore si impegna in modo particolare nella realizzazione dell’opera. E quando l’opera funziona, funziona anche lo scultore. Abbiamo deciso di costituire attorno al nocciolo più duro, più difficile ma anche più chiaro, il messaggio del movimento. Dopo un anno di lavoro abbiamo compreso che è stata la scelta giusta. Perché chi viene a contatto con il messaggio che portiamo con le sculture comprende il messaggio intimo del movimento, e si dimostra spesso pronto alla collaborazione, anche con altri media. Naturalmente non abbiamo limitato il tutto alla scultura. Non ha senso chiudersi al mondo».

Il movimento ha come peculiarità la diffusione di un messaggio di rinascita e di risalita, cosa auspicate per l’arte contemporanea in Italia?

I.B. «Il sistema italiano continua a chiedere agli artisti di dover essere, dover credere, dover fare, avere coraggio. È inutile chiederlo: i veri artisti già lo fanno, hanno intrinsecamente bisogno del dialogo e del lavoro nel pubblico, nel sociale. E smettiamola anche di dire che gli artisti oggi sono troppi: sono sempre stati troppi. Il tempo deciderà chi è vero artista e chi no. Noi curatori e studiosi dobbiamo deciderlo. Ma non è questo il vero problema. Auspico che le istituzioni preposte alla promozione e allo sviluppo dell’arte contemporanea la smettano di dire agli artisti, agli studiosi e ai curatori di crederci, di fare, di lavorare, di non scappare. Che inizino a credere, fare, lavorare e non fuggire loro, alle loro responsabilità».

G.G. «Che si possa rompere il circuito ”io espongo, io faccio e tu guardi”. Quello che vorremmo è instaurare un altro circuito: ”facciamo insieme, guardiamo insieme, cresciamo insieme”. È il grande tema della condivisione, di un’arte che vive di atteggiamenti performativi: un’arte che vuole e accetta di farsi ”tirare fuori” dagli studi degli artisti per mescolarsi con la gente, per coinvolgere le persone in un processo capace di esplorare nuovi modi di diffusione dell’arte. Emblematico, da questo punto di vista, è ciò che è accaduto a Gibellina, dove Arecco è stato invitato a realizzare una delle sue potenti Arche di pietra. Lì si è verificato un processo che ha coinvolto, ad esempio, anche le scuole e grazie al quale 500 bambini e ragazzi hanno contribuito a realizzare l’Arca che resta come patrimonio di quell’incredibile luogo».

Trecentosessantacinque giorni di fervente lavoro hanno segnato un primo ciclo di iniziative, quali progetti vi attendono nel prossimo anno di vita?

F.A. «Abbiamo dedicato un anno di lavoro a strutturare progetti in Italia. Occorre ordine e forza in casa prima di uscire. I prossimi anni li dedicheremo a sviluppare o aderire a progetti italiani ed esteri. L’aggettivo italiana associato a Resilienza non sta a significare una cesura nazionale fra noi e qualcun altro. Oggi i confini, fra persone intelligenti, esistono solo per ragioni latamente burocratiche. Noi partiamo da una situazione culturale italiana per valorizzarla e usarla come paradigma per una resilienza generale, perché tutti hanno bisogno di confidare, progettare, realizzare e realizzarsi. In porche parole, di Resilienza».

I.B. «Il prossimo 15 gennaio, in occasione della ricorrenza del 47esimo anniversario del terremoto che sconvolse la valle del Belìce, la fondazione Orestiadi inaugura la mostra itinerante Reti di Resilienza: SmArt Riso negli spazi degli atelier del Baglio Di Stefano di Gibellina; il 22 siamo con uno Special projects a SetUp 2015, e abbiamo un talk il 23 alle 18 dedicato al libro Resilienza italiana. Dialoghi e riflessioni. Poi ci sono nuove collaborazioni in essere con diverse fondazioni e istituzioni, con accademie e gallerie. C’è un sacco di lavoro da fare. Stiamo traducendo il saggio Resilienza italiana in inglese perché esca con Mimesis international, stiamo chiudendo il Concorso segreen art workplace, stiamo organizzando un festival. Sì, c’è un sacco di lavoro di fare».

Info: www.resilienzaitaliana.org

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