La (falsa) pietà dei mandelani

È sempre difficile, per questioni e cultori di storia locale, emergere dalle secche del circoscritto per approdare a riflettori di più vasta portata. E questo, va da sé, senza nulla togliere al valore dell’opera o al tema discusso. A questo fato pochi sfuggono, e ancora meno emergono per brillantezza espositiva. L’opera Mandelanorum pietas, data qualche tempo fa alle stampe da Mario Lucarelli – Espera, 90 pagine, 20 euro – per conto del centro studi Ercole Nardi del museo civico di Poggio Mirteto fa storia a sé, per impegno profuso e ricchezza di dati. Al punto che può ben inserirsi nel solco dell’illustre predecessore: quel Nardi, appunto, che da appassionato storico locale tracciò, alla fine dell’800, una panoramica delle ville romano-sabine nell’area della Sabina Tiberina, e segnatamente del comune della Bassa Sabina. Un’opera rimasta a lungo manoscritta e solo recentemente data alle stampe grazie all’opera meritoria delgli amici del museo diretto da Andrea Leopaldi, a cura dell’archeologo Dario Scarpati.

Mandelanorum pietas prende le mosse dall’epigrafe nella chiesa di San Paolo che si può ammirare nel retrofrontone, fianco a quell’inconcontro tra i vivi e i morti che è l’affresco più noto della chiesola duecentesca. La chiesa in sé è un piccolo gioiello non abbastanza noto della regione: nasce agli abbrivi della storia mirtense come cappella cimiteriale del castrum sorto sul colle dei mirti sul finire del Duecento, ma già occupato come campo trincerato durante il lungo assedio che oppose le milizie avverse agli ultimi abati di Farfa contrapposti al potere pontificio, nel secolo precedente. E sorge assai probabilmente sul sito di un sacello pagano, come chiesola inizialmente dedicata alla Vergine – nel tentativo del IV-V secolo di estirpare la devozione locale verso la dea Vacùna – e successivamente ai santi Pietro e Paolo, dei quali un bell’affresco quattrocentesco campeggia nella navata, per serbare infine il nome del solo tarsiota, perdendo la dedica al principe degli apostoli.

E veniamo all’epigrafe. Essa campeggia nella parete di controfacciata con varie figuri di santi e l’appellativo, appunto, di Mandelanorum pietas, datato alla metà del ‘700, facente riferimento a un restauro della chiesa sepolcrale a seguito dei tanti sismi che avevano danneggiato la struttura imperversando nell’Appennino centrale. I buoni parrocchiani poggiani, o mandelorensi che dir si voglia, misero mano alle saccocce e restaurarono il sito, guadagnandosi l’iscrizione di ringraziamento a futura memoria. E qui nasce la questione, e l’origine del libro: se il richiamo alla pietà mandelorense serbi infatti un qualche aggancio con la toponomastica reale del luogo, al di là delle citazioni erudite che dal XVIII secolo in poi si sarebbero succedute avvalorando tale tesi. Se, cioè, il termine Mandela abbia un suo antecedente in un’arcaica città sabina, non sopravvissuta alla romanizzazione dell’area, come lascerebbe supporre l’epigrafe, o sia piuttosto un riferimento del tutto inventato, o meglio ancora nato da un equivoco, come per la più nota vicenda della villa di Orazio in Sabina. Allo stesso modo in cui questa, e il contiguo fanum Vacunae, sarebbero oramai acclarati, non senza contestazioni, presso Licenza sul San Gennaro e non a Vacone. Senza nulla togliere all’esistenza in situ di un diverso tempio dedicato alla dea epicorèa dei sabini, nell’ambito di una pluralità di luoghi di culto allo studio dei quali sarebbe bene, prima o poi, dedicarsi seriamente e con dovizia di mezzi.

Veniamo subito alla questione, risolta negativamente da Lucarelli. Nel senso che è appunto avvalorando la tesi dello scambio che è da escludersi, secondo lo studioso, l’esistenza di un’antica Mandela nell’area dove poi sarebbe sorto, tredici secoli dopo, il primigenio Castrum de Podi, alias di Poggio Mirteto, conglomerandosi coi piccoli casali e borghi fortificati vicini. La vera Mandela, insomma, era dov’è grossomodo l’attuale, in area ciociara e comunque ben al di là dell’Anio (l’Aniene) che rappresentava, con la sponda sinistra del Tevere, la punta massima dell’espansione sabina meridionale, e solo una trasposizione letteraria ha potuto collocarla, alla metà del Settecento, in piena area Sabina, al pari della villa del letterato romano. La tesi è ben suffragata e rimandiamo agli interessati la lettura dell’excursus storico della vicenda, anche attraverso l’esaustivo apparato iconografico e le appendici, per non appesantire il testo. Ci limitiamo qui a due suggestioni, a motivo di ulteriori indagini su un territorio che, a voler ben cercare, può rivelarsi una miniera assai preziosa di antichità ignote ai più.

La prima è che Mandela può ben essere un’invezione, ma sul sito dovevano per forza essere presenti centri sabini tali da giustificare un doppio castrum romano ai tempi dell’occupazione dell’area ad opera delle legioni di Manio Curio Dentato, all’inizio del III secolo avanti l’era cristiana, sul finire dell’ultima guerra sannitica. Il toponimo Taragnano, più che fare riferimento ad antichi cultori di polenta taragna rievoca forse la mitica Taramna, il cui sito non è mai stato individuato con esattezza, al pari dell’altrettanto mitica Regillo. E mitica, si badi, non vuol certo dire inventata. E qui si apre la seconda questione. Dell’esistenza d’una Regillo sabina, come pure di una Regillo latina, non può certo dubitarsi, esatta collocazione a parte. Come non può dubitarsi d’una Gabio latina e di una Gabio sabina, individuata ancora a metà del Settecento dall’abate commendatario di Farfa Pierluigi Galletti in quel di Grotte di Torri, ancora visibile e scambiata dai malaccorti per ruderi della solita villa tardo repubblicana, al pari dei contrafforti sul versante meridionale di Montorso, presso la stazione di Poggio Mirteto. E allora, perché non supporre, del pari, l’esistere d’una duplice Mandela? Ma queste sono facezie, e diamo per buone le intuizioni di chi non vuole scambiare mandelani per poggiani, fino a prova del contrario.

 

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