La Biennale dei sì e dei no

Roma

A pochi mesi dall’inizio della Biennale di Venezia si cominciano a tirare le fila della 55esima edizione della rassegna dell’arte internazionale, che continua a far parlar di sé sia in termini di elogio della fattura che di critica. Ieri sera a Villa Carpegna si sono incontrati alcuni esponenti autorevoli della scena italiana per discutere dell’ambizioso progetto realizzato da Massimilano Gioni. Nel corso della serata, in cui non sono mancati scambi di battute e colpi di scena, sono stati sollevati interrogativi e dubbi, ma anche avanzati spunti interessanti e chiavi di interpretazione stimolanti. Indubbiamente c’è ampio accordo nell’affermare che il Palazzo Enciclopedico, roccaforte e contenitore di tutti i saperi dell’umanità, sia un marchingegno costruito in modo perfetto, senza nessun ingranaggio fuori posto e nessuno strafalcione da parte del curatore. Ogni cosa è sapientemente organizzata, il percorso è chiaro e lineare, addirittura le didascalie, ben scritte e ragionate, sono pensate finalmente in funzione del visitatore: lo accudiscono e indirizzano verso la comprensione di quello che è stato definito come un «viaggio mistico, di iniziazione spirituale». Si tratta di un’esperienza che ci catapulta in un altrove parallelo, in cui Gioni mette in mostra i suoi fantasmi e le sue suggestioni, paragonata per questo dal critico d’arte Stefano Chiodi alla stessa utopia del curatore Harald Szeemann, che voleva ideare un perfetto insieme di mostre che racchiudessero le sue intuizioni, i suoi pensieri oltre ai grandi temi della civiltà moderna. Testimonianza di ciò è la sezione curata da Cindy Sherman, la quale ha invitato artisti e non artisti che hanno formato parte del suo immaginario e che, a detta di Bartolomeo Pietromarchi, curatore del padiglione Italia, è l’esempio emblematico del tipo di approccio adottato da Gioni. La carta vincente giocata dal curatore è stata quella di aprire le porte ad un 40% di artisti dilettanti, lasciando fuori i grandi nomi dell’arte (tra cui anche Maurizio Cattelan). Ciò sicuramente ha trasmesso un segnale importante di trasformazione, di speranza di un’inversione di rotta (oggi più che mai necessaria) ed è comunque spia di un cambiamento radicale anche del meccanismo Biennale, grazie anche alla capacità di Gioni di annusare le tendenze internazionali.

Non c’è quindi da restare sorpresi se rispetto alle scorse edizioni, questa Biennale ha raggiunto già un nuovo record di affluenza e ha lasciato il mondo artistico istituzionale stupito dai tanti commenti positivi.

Tuttavia aleggiava ieri sera un’aura di perplessità intorno agli autorevoli invitati che, nonostante non potessero disconoscere i meriti del Palazzo Enciclopedico e lodarne la qualità con cui è stato curato, non ne sono stati del tutto sedotti. Dopo vari elogi, dunque, non mancano le critiche. L’onnipresenza di Gioni, accusato di aver messo la firma su ogni cosa e di essersi edificato un mausoleo autoreferenziale, autografando oggetti e percorsi, provoca, secondo Cecilia Canziani, direttrice della Nomas Foundation, un’inevitabile sensazione di disagio nei visitatori e di sofferenza delle opere, costrette all’interno degli spazi (l’esatto contrario dell’idea auspicata da Szeemann). L’immagine del curatore sciamano, mago, artista è, secondo Luca Lo Pinto, destinata a fallire perché, dice citando il filosofo tedesco Boris Groys: «Il curatore può certamente esporre la sua opera d’arte, ma non avrà mai l’abilità magica che appartiene solo all’artista».

Si assiste quindi nel caso di questa Biennale, alla mise en place di un diamante bellissimo, come apostrofato da Pratesi, ma gelido che, messo inevitabilmente a confronto con la Documenta di Kassel di Carolyn Christov–Bakargiev, soccombe dal punto di vista emotivo. Quest’ultima, probabilmente meno perfetta nel display, riesce più della Biennale a far leggere la sua scrittura espositiva e, come afferma la Canziani: «Non si racconta soltanto, ma ti chiede anche come stai». Il risultato è che, nonostante il tentativo colto di mettere in mostra citazioni e riferimenti del passato, questa Biennale è paradossalmente più apprezzata dai non addetti ai lavori, che vi riconoscono un panorama figurativo familiare. Gli specialisti, invece, infastiditi da tanto misticismo (che fa chiedere a Pirri: «È autentico tutto ciò? Questa Biennale è un atto simbolico?») e imprigionati in una struttura che li costringe a calcare i passi del curatore senza andare mai fuori strada, arrivano alla fine della Biennale senza ricordare una sola opera, stanchi, con l’impressione di vuoto addosso. Dopo gli interventi degli esperti, infatti, arrivano quelli del pubblico, tra cui la domanda sarcastica di una signora, alla quale non si può evitare di sorridere : «Allora decidetevi, questa Biennale vi è piaciuta o no?».

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