Il fascino di Art Basel

Basilea

Sarà questione d’intuito ma, se Sergio Ermiotti, direttore generale di Ubs, si affaccia davanti a una nuvola di giornalisti per presentare un evento culturale, uno sa di trovarsi ad Art Basel. Solo una fiera d’arte che concentra attorno a sé ogni aggettivo superlativo può convocare uno degli uomini più potenti al mondo insieme a una marea umana di professionisti, dilettanti e curiosi dell’arte. Ogni anno l’opulenza si ripete per superare sé stessa e, quest’anno, non poteva andare diversamente. Per una settimana Basilea è stata la capitale mondiale dell’arte. La nuova opera di Herzog & De Meuron concentrava tutte le attenzioni e le conversazioni sin dalle prime ore. Nei corridoi l’unico argomento era questo magma argentato con pelle di pesce. Serviva di contrappunto a tanto alluminio il Favela Caffè, la geniale installazione in legno dell’artista giapponese Kawamata: capanne, vasche per i raffinati piedi e ombrelloni qua e là come caduti per caso nel luogo sbagliato. La visione impossibile la completava un vero e proprio circo dall’altra parte della strada che spargeva odore di popcorn e Chanel. Oltre la capitale mondiale dell’arte, Basel sembra essere la capitale mondiale dei soldi, o quanto meno, alberga la più alta concentrazione di ricchi per metro quadro. In quelle ore si chiude la maggior parte delle vendite per la gioia dei galleristi che, quest’anno, hanno sborsato una media di quattrocento franchi svizzeri per metro quadro, da aggiungere ai costi sproporzionati di trasporto, assicurazione e dogana. «È la prima volta per me – dichiara Steven Sacks, di Bitforms New York – da oltre dieci anni provo a entrare ma sono molto esigenti. Controllano la tua programmazione, gli artisti e perfino le opere che avrai nello stand. È un investimento molto importante per una galleria come la mia ma le vendite superano ogni aspettativa e dunque, definitivamente, ne vale la pena».

Le fiere d’arte sono spazi che svegliano tuttora il sospetto di tanti. Non è possibile che tutto sia così importante da vendersi cosi sfacciatamente caro ma, come affermava Gabriel Orozco qualche anno fa, le fiere d’arte hanno un impatto nella vita sociale di una città, sono luoghi dove l’arte circola liberamente e, in qualche modo, funzionano come effimeri musei dove la logica non è quella della posterità ma quella del mercato. Da leggere che sarà a sua volta il mercato a decidere chi e quando tale artista arriverà ai musei. E sarà infine responsabilità del museo concedere o meno tale statuto. In quest’ottica, Art Unlimited è l’ibrido più riuscito; la genialità fuori taglia e proporzione è uno spettacolo unico. Opere impossibili che lasciano a bocca aperta per gusto o disgusto, sia chiaro. Quest’anno sono stati ben 79 i progetti presentati, quasi una ventina in più rispetto agli anni precedenti scelti tra oltre 700 opere.

«La mia intenzione è quella di mostrare un’ idea generale di quel che accade attorno a noi. Non mi interessa la coerenza interna, la coerenza ci debilita» dice Jetzer, curatore della presente edizione. La presenza asiatica è sconcertante assieme così come una sorte di rivendicazione del video, completamente sparito degli stand. La fantasmagorica stanza in argilla proposta da Chen Zhen (Purification room) o Fairytale, ladies dormitory dell’onnipresente Ai Wei Wei sono da segnalare. Estremamente raffinata l’opera di Claudio Parmiggiani, Untitled: una libreria di cui resta solo l’ombra così come la prospettiva impossibile di Walid Raad, due porte di accesso al vuoto. Ma è stata la stanza di Chiharu Shiota ad avere il più alto favore di critica e pubblico.