Sarà visitabile fino al 22 giugno 2025 la mostra Io sono Leonor Fini curata da Tere Arcq e Carlos Martín a Palazzo Reale a Milano, in collaborazione con Leonor Fini Estate. L’esposizione propone al pubblico un’ampia monografica dedicata all’artista triestina (1907-1996), nata a Buenos Aires ma cresciuta nella città di Italo Svevo e vissuta tra Italia e Francia. Personalità estremamente eclettica e stravagante, si forma in un clima culturalmente fervido, circondata da intellettuali e artisti, e si dedica da autodidatta alla pittura studiando con grande interesse la storia dell’arte tradizionale, come attestato da numerosi richiami e spunti presenti nelle sue opere.


L’ampio percorso espositivo traccia un viaggio nella produzione artistica di Leonor Fini, organizzato in sale tematiche dall’allestimento estremamente scenografico (l’artista, d’altronde, è stata ella stessa scenografa per il teatro) nelle quali le sue opere pittoriche sono costantemente poste in dialogo con fotografie scattate in svariati momenti della sua lunga vita, che ha attraversato quasi per intero il Secolo Breve. Scelta curatoriale imprescindibile, poiché la fotografia ha costituito per Fini il principale mezzo di definizione della propria immagine sociale e artistica nonché, più in generale, della propria identità.
È significativo in tal senso che l’ultima sala del percorso, che espone numerosi scatti che la ritraggono dal 1934 al 1983, si intitoli proprio “Persona”, termine che etimologicamente rimanda alla maschera usata dagli attori del teatro antico, sottolineando la rilevanza che – come vedremo – Fini ha attribuito al tema del travestimento. La sua figura è stata infatti al centro della sua attenzione per l’intera sua esistenza umana e artistica (due cose per lei sostanzialmente indifferenziabili) in un continuo processo di autodefinizione, libero e anticonformista, che si riassume perfettamente nel titolo scelto per la mostra milanese e che riprende una citazione dell’artista stessa: “Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: «Io sono»”.


“Io sono” – che sembra riecheggiare quel “Io dico Io” di lonziana memoria – è la dichiarazione di autodeterminazione che tutte le figure femminili volitive e affascinanti dei suoi quadri sembrano essere in procinto di pronunciare. Fuori dagli schemi e stravagante, Fini si avvicina al Surrealismo durante il suo viaggio a Parigi nel 1931, rimanendo però sempre artisticamente autonoma e impiegando le proprie opere per indagare temi legati all’identità, al rapporto tra generi, alla famiglia, alla morte.
Le donne dei quadri di Fini (molte delle quali hanno il suo stesso volto), immerse in atmosfere oniriche ed enigmatiche, sembrano infatti ribaltare la tradizionale rappresentazione della figura femminile e della relazione tra uomo e donna nella storia dell’arte (si pensi, solo a titolo d’esempio, a iconografie come quelle della Venere e a tutte le sue declinazioni, da quella dormiente di Giorgione fino all’Olympia di Manet). In tele come Donna seduta su un uomo nudo (1942) o L’alcova (Autoritratto con Nico Papatakis) del 1941, solo per citarne alcune, assistiamo infatti a una inversione radicale di ruoli che vede la figura femminile in posizione dominante rispetto a quella maschile sopita e ridotta a oggetto dello sguardo desiderante femminile.
A questa rappresentazione attiva e anticonformista della figura femminile corrisponde, nella vita di Leonor Fini, anche una rielaborazione della visione tradizionale dei rapporti coniugali che la vede protagonista di una relazione al limite dello scandaloso per i canoni del tempo (ma, probabilmente, anche per quelli di oggi), ovvero un ménage à trois da lei portato avanti durante gli anni Quaranta con Stanislao Lepri e Constantin Jelenski. L’“Io sono” proclamato programmaticamente da Leonor Fini investe quindi tutti gli aspetti della sua vita, compresa la dimensione più strettamente sentimentale, in cerca di alternative alla cultura patriarcale ed eteronormata dominante, risultando quindi una personalità estremamente contemporanea e precorritrice.

“Se fossimo veramente liberi saremmo tutti androgini” afferma Fini durante un’intervista in francese all’interno di un film documentario a lei dedicato, presente nel percorso della mostra milanese: questa fluidità di genere è proposta non solo tramite la rappresentazione di figure maschili in pose languide e delicate (Narciso Impareggiabile, 1971, o la già citata tela del 1941 L’alcova) ma anche di raffigurazioni femminili abbigliate con corsetti fatti d’armatura (L’alcova/La stanza nera/Interno con tre donne del 1940 oppure Donna in armatura 2 / Donna in costume del 1938), che si aggiungono alle mitologiche sfingi, creature ibride metà donne e metà leonesse che popolano numerose sue opere (Sfinge arancione / Sfinge alata, 1973 o Divinità ctonia che veglia sul sonno di un giovane / Sfinge nera che veglia sul sonno di un giovane / Autoritratto con Sforzino Sforza del 1946).
In questa ricerca di fluidità e libertà nella definizione della propria identità, si inserisce anche un altro tema che – al pari delle sfingi – rappresenta, come anticipato, un elemento ricorrente in tutta la produzione artistica di Fini: il travestimento. Le fotografie e opere come Foglia d’acanto / Donna con foglie di acanto (1946), Ritratto di André Pieyre de Mandiargues / Il travestito con uccello / Ermes (1932) e Asfodelo (1963) ribadiscono infatti il fascino di Fini verso le possibilità che l’arte offre per rielaborare e costruire la propria immagine, il proprio sé, in una dimensione creatrice e per certi versi anche rituale, che coinvolge non solo il corpo ma anche la natura.
Il fascino ambiguo nei confronti della natura traspare anche in altre tele, in particolare nelle nature morte che richiamano da vicino la pittura fiamminga rinascimentale, con il suo gusto lenticolare per i particolari anche più minuti, oppure in opere a sfondo surrealista come Bersaglio / Spagna / Cranio di pesce africano (1945-50). In esse, atmosfere oniriche e inquietanti lasciano l’osservatore sospeso tra un senso di angoscia e di fascino mentre il suo sguardo naviga tra i dettagli che riportano alla mente ora le creaturine mostruose che popolano le opere di Bosh (Il confine del mondo, 1948) ora le fantasmagoriche teste di Arcimboldo (La grande radice, 1943-50).

La mostra ci restituisce dunque l’immagine di una donna estremamente colta e attiva su più fronti nella vita artistica e mondana del suo tempo. Oltre alla pittura e alla fotografia, si interessa anche di letteratura, teatro, cinema, moda, product design (nel 1937, per esempio, disegna la boccetta del profumo Shocking di Elsa Schiaparelli). Lungo il percorso vediamo esposti numerosi libri d’artista, alcuni da lei illustrati (un’edizione del 1964 dei Fiori del Male di Baudelaire o una del 1979 del Satyricon di Petronio), altri di cui è autrice (Il libro di Eleonor Fini, 1975, oppure Mourmour, un racconto per bambini pelosi, 1976, dedicato ai gatti per i quali Fini prova un forte fascino).
Una mostra su Leonor Fini, infine, non sarebbe davvero completa senza una disamina del suo lavoro per il teatro e il cinema, dunque i curatori propongono per questa occasione una selezione di figurini di costumi per il cinema (8 ½ di Federico Fellini) e per il teatro (Il ratto dal Serraglio di Mozart per il Teatro alla Scala di Milano, 1952), nonché dei bozzetti di scenografie (Les demoiselles de la nuit, Teatro alla Scala di Milano, 1963).

Ecco dunque che ritorna di nuovo il tema del travestimento che, come detto, sembra costituire una sorta di basso continuo nella vita di Leonor Fini, tanto nella sua pittura quanto nella sua quotidianità, sempre in cerca di un nuovo tassello da aggiungere al mosaico del proprio sé artistico. “Ai balli c’erano sempre degli sprovveduti che mi invitavano a ballare. Non è mai stato il motivo per cui ci andavo. Sorseggiavo e assaporavo la mia immagine negli specchi immensi, mi godevo i sussurri della folla al mio passaggio… e poi tornavo a casa a dormire” racconta non senza una certa ironia Leonor Fini, sempre preoccupata che i suoi costumi fossero “così belli, così esagerati” e che, sempre per usare le sue parole, “tutti facessero un passo indietro” per ammirarla passare.
Non è un caso che anche le sale della mostra siano punteggiate di specchi, collocati tra le opere e le fotografie, in cui anche il visitatore può sorseggiare per un po’ la propria immagine e dire tra sé e sé “anche io sono”.
info: palazzorealemilano.it