Jonathan Vivacqua (Erba,1986) ha recentemente inaugurato la sua mostra Oil Void, a cura di Angelica Gatto, al Contemporary Cluster di Roma, segnando una nuova fase della sua ricerca. Il suo mondo nasce e si nutre del paesaggio industriale che ha accompagnato la sua infanzia: una sinfonia di ruspe che scaricano tonnellate di terra, hangar immensi, travi d’acciaio che danzano nell’aria sospinte da bracci meccanici. Elementi in apparenza rigidi e inanimati che, attraverso lo sguardo di un bambino, si trasformano in creature vive, colme di potenziale e poesia.
Il percorso di Vivacqua è una fusione di duro lavoro e immaginazione. Anni trascorsi nei cantieri, tra fatiche e polvere, hanno temprato il suo spirito e affinato la sua capacità di osservare i dettagli minimi, di scovare frammenti di meraviglia nascosti tra le pieghe della quotidianità. Questa capacità di estrarre bellezza e significato da materiali industriali lo ha portato a creare opere che raccontano la fugacità e la rapida obsolescenza del nostro tempo. In un mondo in cui tutto sembra fluire con impetuosa velocità, Vivacqua esplora la tensione tra il permanente e l’effimero, lasciando che la sua arte nasca da un processo tanto istantaneo quanto profondo.
Oil Void testimonia un passo in avanti nella sua esplorazione: un tuffo nell’astrazione, un viaggio interiore che vibra sui pannelli di legno con l’olio motore, un materiale dalle suggestioni complesse e spesso inaspettate. Queste tele non sono solo quadri; sono aperture, buchi neri che pulsano sulla parete, evocando superfici di legno, lastre di onice, e galassie lontane. L’artista non decide le forme; piuttosto, le scopre, le accoglie. C’è una sorta di alchimia in questo incontro tra il gesto umano e l’indomita natura del materiale, una danza che invita lo spettatore a sostare, a osservare e a perdersi.
Vivacqua non costruisce illusioni. I suoi spazi non deformano, non ingannano. Si aprono, piuttosto, come portali che conducono a una contemplazione lucida e profonda. Le sue opere, lui stesso afferma, come un tramonto che si ripete ogni giorno, richiedono la scelta del guardare, la decisione di fermarsi e lasciarsi toccare da quel momento. In Oil Void, l’artista si affaccia su nuovi orizzonti, rivela l’anima mutevole del suo percorso e ci invita a percorrerlo insieme, in un dialogo silenzioso con la materia e lo spirito.
In un’epoca in cui molti artisti stanno esplorando materiali sostenibili e organici, tu continui a lavorare con componenti industriali. Che tipo di dichiarazione intendi fare con questa scelta?
I materiali si conoscono utilizzandoli. Io ho scelto di utilizzare solo materiali che appartengono al nostro tempo. Nascono per dover durare ma non sono poi così duraturi come altri come il marmo o il ferro, questi però hanno una caratteristica che li contraddistingue: sono più lenti. Ho capito questo lavorando in edilizia, un campo che si muove molto velocemente e viaggia sempre al passo con gli ultimi approdi tecnologici. I tempi di costruzione di un edificio sono sempre più rapidi, come tutto nel nostro mondo contemporaneo. Più che il materiale quindi io sono interessato al processo di costruzione. Per assemblare più elementi di una scultura o un’istallazione con questi materiali io non ho bisogno di ore. In poche decine di minuti il corpo dell’opera può essere completato. Questo elemento è fondamentale per comprendere la contemporaneità di questo genere di lavori. C’è un effettivo richiamo a una realtà moderna, superficiale, veloce e questi materiali sono inoltre soggetti a un disfacimento, a una corruzione, come tutto al giorno d’oggi rispetto ai materiali più tradizionalmente utilizzati nel campo scultoreo.Viene tutto riprogettato in un tempo più umano, a misura d’uomo. A me non interessa il concetto del riutilizzo, non appartiene alla mia ricerca il concetto della sostenibilità. Io a volte utilizzo materiale di scarto nel cantiere ma a volte lo acquisito ex-novo.
Parliamo dello spazio. Questo elemento connota, e se la risposta è “si”, in che modalità, il tuo lavoro?
Le mie opere non si pongono assolutamente l’obiettivo di modificare la percezione dello spazio in cui lo spettatore potrà fruire della mia opera. Certo, io cerco di creare un feeling con lo spazio in cui opero. Un’installazione deve avere sempre una specifica quantità di spazio per essere attivata.
Questo è il motivo per cui ho deciso di vivere fuori dalla città. Nel mio studio, che è molto grande, ho l’opportunità di dare la giusta aria alle mie opere. Il processo che compio in fase di realizzazione è svuotare l’intero studio. Renderlo un foglio bianco. Passo molto tempo a pulire e spostare le cose. Questo per me è essenziale per guardarle nel modo giusto. Io non gioco con le mie opere a distorcere gli ambienti. Credo che lo spazio sia fondamentale per fruire le mie opere nel modo giusto ma l’obiettivo è cambiare lo sguardo delle persone che ci si imbattono, non ingannarle. Cerco sempre di proporre le condizioni ottimali per una contemplazione lucida del mio lavoro. Osservare una scultura è un’esperienza. Non sono oggetti figurativi in cui puoi metterti a fantasticare sui dettagli. Spesso dico che le opere sono come un tramonto. Come il sole cala tutti i giorni, anche le opere sono sempre li, installate. Sei tu fruitore che scegli di guardarle e vivere ciò che da quell’osservazione nascerà dentro di te. Esattamente come un tramonto, solo quando scegli di stare li a guardarlo ed emozionarti attivi ciò che in grado di innescare.
Il tuo studio è come un foglio bianco dove il pensiero prende corpo a livello formale hai detto. Ripartiamo da qui. Quale ruolo ha il disegno nel tuo processo creativo? È per te una fase progettuale indispensabile o un mezzo espressivo autonomo che influenza il risultato finale delle opere?
I disegni per me sono importantissimi.
Non progetto mai i miei lavori in realtà, quindi i disegni non sono progetti di quello che poi trasformerò in installazione. Non ho mai realizzato una scultura che provenisse da un disegno realizzato su carta.
Quello che faccio però è disegnare alcune delle mie opere dopo averle realizzate. Io faccio vedere pochissimo i miei disegni. Nella mostra inaugurata al Contemporary Cluster li ho esposti per la prima volta. Quello di cui ho più paura oggi è perdere la capacità di disegnare. L’atto del disegno che per me è stato fondamentale fin da bambino, fino all’adolescenza, per comunicare e definirmi, temo che mi abbandoni. Mi ritrovo oggi ad avere grande difficoltà nella realizzazione del figurativo, tendo sempre di più ad astrarre. Mi hanno detto che forse è semplicemente perché nel figurativo tendo a non trovare più la fascinazione di una volta. Non so se è proprio così. In ogni caso il fatto che sia più legato ad una dimensione astratta è un dato di fatto.
A questo proposito, la mostra Oil void presenta per la prima volta una serie di lavori pittorici. Da dove proviene questa esigenza di sperimentazione ?
Mi sto allontanando sempre di più da quella ricerca che parte dall’analisi dello spazio industriale. Mi sto spingendo sull’astrattismo più intimo, più interiore, quasi viscerale. Lo trovo un linguaggio molto personale. I quadri prodotti con l’olio motore nascono dalla volontà di creare dei buchi neri nella parete. L’olio motore è un materiale che studio da anni ma è davvero ingestibile. Solo oggi sono arrivato a una sintesi del suo utilizzo. Quello che è venuto fuori nella serie di quadri presentati a Roma è piuttosto casuale, non prevedevo che avessero l’aspetto che presentano oggi. Quello che mi ha affascinato però è la ricerca delle forme che a loro volta sono sfuggenti. Non posso decidere quali siano i pattern che si formeranno, in questo caso è un lavoro di selezione più che di gestione il mio. Amo il risultato che è emerso da questa sperimentazione.
In questo processo però lavori con materiali di riuso. Hai affermato che non c’è una reale motivazione di stampo ecologico nell’utilizzo dello scarto nella tua ricerca. Però cambiando il processo in questo caso, che come dicevi rispetto a quello che prevede l’installazione e la scultura, è inevitabilmente più lungo, perché l’olio motore esausto, e tutti gli altri elementi necessari a realizzare i pigmenti, sono per te gli strumenti giusti per esplorare questo nuovo campo di lavoro?
Torno al discorso sui materiali. Utilizzo questi materiali spessissimo nella mia produzione, mi riferisco anche al polistirolo di cui sono fatte le altre installazioni presenti in mostra a Roma, e sono tutti elementi che appartengono al nostro quotidiano. Ci circondano. Ci conviviamo. L’olio motore è davvero molto inquinante. Devastante per il pianeta. Però lavorandoci ho notato che riesce a regalarci delle immagini che in qualche maniera sembrano riconduci alla natura. I pannelli di legno esposte in Oil Void hanno un estetica naturale, mi ricordano in alcuni casi la superficie di una tavola di legno o una lastra di onice. In altre occasioni le osservo e ci vedo quasi delle galassie. È una cosa un pò strana, ma mi affascina. L’astrazione è ciò che contraddistinguerà anche una nuova serie di lavori, in questo caso scultorei, su cui sto ragionando. Le cose cambiano. Questa mostra è un punto di ripartenza.