Aperta in principio nelle sale di Palazzo Cavallerini Lazzaroni, tra Campo de’ Fiori e Largo Argentina e trasferitasi nel 2021 a Palazzo Brancaccio in via Merulana, la galleria fondata nel 2016 da Giacomo Guidi ha inaugurato, lo scorso 18 settembre, la sua terza sede, in Via Odoardo Beccari all’Aventino. Il progetto che sancisce il nuovo corso è Fatmah, una collettiva che raduna, fino al prossimo 31 ottobre, otto artisti, imbastendo un dialogo assolutamente paritario tra alcuni protagonisti della giovane scena artistica italiana e alcune proposte di respiro europeo e internazionale.
Promesse di rinnovamento che sono in primo luogo premesse, evidenti già nella scelta del titolo: “In arabo – scrive Arnold Braho, autore del testo critico – “Fatah” […] significa “aprire” o “rinnovare”, riferimento che riflette non solo la vitalità insita nel nome, ma anche una promessa di crescita e prosperità, un augurio di continua rigenerazione, di saggezza e di resilienza”. Rigenerarsi, dunque, agire in un campo collettivo di forze: se Fatmah – continua Braho – “può essere concepita come un rituale di passaggio” che “orienta il nostro sguardo ed è un fattore di azione sociale”, anche lo stesso termine “Cluster” indica, dall’inglese, proprio il “gruppo” o l’atto stesso di “raggrupparsi”.

Il nuovo Contemporary Cluster a Roma
Introdotti sommariamente i membri di questo gruppo, occorre passare a delineare il profilo del luogo dell’incontro. Il nuovo spazio di Contemporary Cluster è più prossimo al modello classico del “white cube” e specificamente a quella declinazione sotterranea che a Roma ha raggiunto i suoi esiti più compiuti con il garage de L’Attico di Fabio Sargentini (1968-1976) e con la leggendaria Contemporanea, rassegna curata da Achille Bonito Oliva tra il 1973 e il 1974 al livello interrato del parcheggio di Villa Borghese.
Preceduto da un workspace al piano terra, il nuovo Cluster è accessibile da una scalinata a destra dell’ingresso. Giunti al “white cube” vero e proprio – che più che un cubo è un triangolo che si stringe per riaprirsi in corrispondenza della parete terminale – ci si approccia all’anticamera che affaccia sul vano principale, un ambiente dalla fisionomia netta che ben si presta al colpo d’occhio simultaneo – a differenza delle potenzialità più “narrative” di Palazzo Brancaccio, contenitore più adatto a mostre progressive e “a tappe” – e che sintetizza nella stessa morfologia la missione del gallerista, nuovamente interessato a un racconto più asciutto, rigoroso e minimale.
L’apertura con la mostra collettiva “Fatmah”
La storia di Fatmah comincia nel segno dei lavori di Arvin Golrokh (1992), artista iraniano di base a Torino. Le due grandi tele (Gli arroganti, del 2024, e Shameful prophets, realizzata tra 2022 e 2023) collocate sulla parete di fondo dell’anticamera, così come The indigestible meal (2024), sul lato corto, offrono, nello sfoggio di pasta pittorica e nell’esibizione plateale del colore, un controcanto deciso – e correttamente posizionato – all’atmosfera più rarefatta dello spazio principale. Arvin Golrokh governa l’olio con sapienza: in una congiuntura storica dove il compromesso tra definizione figurativa e deflagrazione materica si traduce molto spesso in risultati poco convincenti, l’artista iraniano tocca un difficile punto di equilibrio.

Nella gestione dello spazio – ripartito con precisione in primo piano e sfondo, con variazioni nell’altezza della linea d’orizzonte – egli chiama a raccolta lo Schifano di certi paesaggi anemici, le agitazioni nervose dei manti erbosi ricordano Pompilio Mandelli o Ennio Morlotti, e i due “profeti vergognosi”, come nel Mengele di Adrian Ghenie (The Arrival, 2014), non sono in grado di assicurarci un volto. Privato di fattezze concrete, ogni despota si fa simbolo di un male universale, bersaglio unico della lotta senza tempo e senza luogo “contro le forze istituzionali”.
Varcando la prima soglia, la grande sala accoglie le due “colonne” in terracotta, rame e acciaio di Nicola Ghirardelli (1994). Percorse in lunghezza da motivi fitomorfi, entrambe intitolate Sicomoro, queste non sviluppano un corpo unico, ma una struttura rotta nel suo slancio verticale, che lascia in vista la frammentazione. Ribaltando il motto di Adolf Loos (“L’ornamento è delitto”) Ghirardelli progetta un vero e proprio “delitto all’ornamento” che per Arnold Braho è l’alternativa necessaria “all’ideologia fallita che per secoli ha perpetuato l’idea di poter domare l’organicità della natura”.
Contro il rischio della strada a senso unico, però, Ghirardelli, interessato alla “tensione generata dalla coesistenza delle alterità”, costruisce un incontro/scontro tra materiali dall’esito tutt’altro che scontato. Tentando di rovesciare la prospettiva, non si potrebbe invece affermare che siano gli elementi antropici ad avere la meglio nel conflitto? È l’acciaio, del resto, l’anima del lavoro, quasi un presupposto modernista che ne permette la stabilità complessiva. Con Ghirardelli, la fase intermedia tra due momenti ben delineati – la natura e la cultura – è l’interregno proficuo in cui i ruoli si confondono a vicenda, la tensione positiva dell’incontro tra avversari che, forse, non sono mai stati tali.
I due schedari di Giuseppe Lo Cascio (1997), modello Olivetti Sintesys c3, sono strutture in legno, polistirene e plastilina tramite cui l’artista siciliano prosegue la sua indagine sull’archivio e sulla memoria. Uno schedario, per sua natura, agisce da custode: protegge documenti, certifica identità personali e collettive, assumendo valore probatorio in merito a eventi e dati di fatto. Uno statuto che le opere scultoree di Lo Cascio sembrano negare, a favore dell’ impermeabilità degli “oggetti specifici”.

Se non è possibile consultare una fonte archivistica, o se è l’artista stesso a impedirvi l’accesso, come in questo caso, la sopravvivenza della memoria è affidata ai frammenti incostanti e fallibili del ricordo individuale, in un passaggio dalla certezza del dato esterno alla forza interna dell’immaginazione. La reticenza dei lavori di Lo Cascio, sebbene questi sviluppino un discorso sulla fisicità dell’archivio (un argomento già messo a tema da Hal Foster), rischia di condannarli alla pura datità oggettuale, rispetto, ad esempio, ad altre prove, come quelle esposte – sempre al Cluster – nella bipersonale con Montinaro.
Anche Lorenzo Montinaro (1997) è presente a Fatmah: qui, la sua ricerca su un tempo che “allude ad una molteplicità di passati, ad una memoria in costante sparizione” prende le forme classiche dei suoi interventi. Come per Victor Sjöström ne Il posto delle fragole (Ingmar Bergman, 1957), anche a coloro che si recano in visita alla mostra è preclusa la conoscenza del tempo. L’orologio di Montinaro – un pendolo di inizio ‘900 – non ha lancette, ed è protetto da una lastra di vetro opaco che aggiunge un ulteriore filtro allo spaesamento iniziale. La memoria, questo sembra dirci l’artista, non è misurabile, il controllo del tempo si risolve solo nella dimensione del puro presente. Oltrepassata la soglia del “qui e ora”, le lancette non hanno più uno scopo: tanto vale farle sparire. Ciò che resta del passato è un brandello materiale: per Montinaro la memoria è un’apparizione fantasmatica, un residuo che vince la scomparsa senza preservare la nitidezza dei fatti vissuti.
La “bacheca” accanto contiene alcuni lacerti lapidei dai caratteri tipografici desueti, schermati da uno strato in vetro reticolato: questa “griglia” rompe la continuità visiva, testimoniando l’impossibilità di dare un ordine e una struttura a una mole di ricordi destinati a sovrapporsi, a urtarsi, a escludersi a vicenda. Se per questi lavori specifici il rischio è quello di una ricaduta didascalica – in uno studio visit della Quadriennale di Roma, si è parlato di “corrispondenza eccessiva tra significato e significante” – la lastra a terra, in marmo, percorsa in lunghezza da una banda rettilinea tracciata col sangue, è un memento mori minimale e di rara efficacia: quando un uomo muore, egli si esaurisce nel linguaggio, e tutto ciò che è corpo (e sangue), scomparendo per sempre, non può e non potrà mai essere rimpiazzato da un nome inciso su pietra.
È il corpo in mutazione al cuore della ricerca di Jacopo Naccarato (1995). La piccola opera polimaterica – Dreader, in legno, plexiglass e ferro – assume le sembianze di una creatura “tricefala” non meglio identificata: “Navigo tra le sfumature dell’incomprensione”, scrive l’artista, che ribadisce come “ogni forma che prende vita” sia “un invito a immergersi in un viaggio intuitivo, dove l’inesplorato diventa il vero motore della creatività”. Il dosaggio – eccessivo, a mio parere – del coefficiente di mistero, però, si stempera nei due olii del 2024, Perfidia e It hurts so good.

Nel primo, un’elegia del Purgatorio, del tempo presente, giocata sulle sfumature di grigio (il “colore del nostro tempo”, secondo Peter Sloterdijk), un piccolo busto è gettato tra le fiamme di un falò, ad incarnare la furia distruttiva nei confronti di un passato a cui non si è in grado di contrapporre una nuova visione. Il grigio, però, può portare la voce di una transizione a venire, e il limbo che separa due fasi è un terreno conteso ad armi pari dall’euforia e dal timore. It hurts so good, “colpisce così bene”, è infatti il titolo del secondo dipinto di Naccarato. Qui, il tono dominante è un blu/violetto che nelle variazioni di chiarezza definisce i rilievi, le zone d’ombra e le porzioni illuminate di un volto catturato da vicino. Gli occhi serrati, o forse mai aperti, traducono l’ambivalenza dell’enigma, e la ferita/lacrima che solca il viso dell’uomo non pare causargli preoccupazioni eccessive: anche la bocca è socchiusa, e non tradisce alcuna smorfia di dolore.
Se Naccarato concede poco, Sofiia Yesakova (1998) non regala nulla. L’unico suo lavoro presente in mostra, Cargo – 200 experimental projections on the surface 5.7, è un saggio di geometria essenziale. Poggiata a parete, l’installazione è composta da un quadrato centrale in legno e da un incrocio di tre linee rette. Il lessico, di chiara derivazione costruttivista, cerca di smentirne gli assunti utopici, di sconfessare la fattibilità del programma auspicato dalle avanguardie russe. Nello specifico, Cargo prova a oggettivare il dramma dei morti in guerre: le tre linee sintetizzano il percorso di ritorno delle salme verso la via di casa, il quadrato nero è il luogo di sepoltura.
Quella dell’artista è perciò una dinamica di tipo astrattivo, la proiezione materiale dell’impossibilità di porsi, nello sguardo distaccato, in uno stato di totale empatia con le vittime della guerra: “Nel corso della guerra, dopo un certo tempo, vediamo la guerra solo come un campo familiare con i suoi segni e i suoi “effetti speciali”. Non vediamo più le persone”. Il rituale di passaggio descritto dall’artista è perciò un’osmosi impossibile, un “cerimoniale di messa a morte interrotta” – per dirla con Boatto – che ha il pregio di definire meglio i ruoli, di ribadire le posizioni di privilegio di chi guarda e ascolta “a distanza di sicurezza”, e di offrire una riflessione più seria su un concetto molto à la page come l’empatia, trattata spesso e volentieri con sconcertante dilettantismo.

Slegati da contingenze tematiche precise, i lavori di Linus Rauch (1984) – le due parti di Everyone once only (2024) – offrono invece una riflessione sulla natura stessa dell’immagine. Se per Yesakova vale lo stesso discorso che vale per Naccarato – il silenzio delle loro opere non sempre è eloquente, e i loro lavori rischiano di porsi come problemi senza dati iniziali per essere quantomeno interpretati – Linus Rauch arriva al punto con sconcertante semplicità e pulizia formale. Composte da parti in tessuto cucite insieme, le opere dell’artista tedesco affermano che ciò che è spazio è anche immagine, e ciò che è immagine è anche spazio. Qui, la non eloquenza delle superfici – in cui porzioni a monocromo nero si alternano ad aree in cui la digradazione del grigio accentua l’impressione di profondità – è raffinata, elegante, e trova in ogni risposta un’occasione ulteriore di domanda.
Più tradizionale, infine, e ancora più esplicito, l’approccio analitico di Franziska Reinbothe (1980). Se con Rauch l’apertura alla terza dimensione era appena accennata, l’invasione dell’atmosfera di Reinbothe è più calcata. Nel suo caso, le due pitture esposte – 027 e 043, del 2024 – diventano realmente scultura, e concretizzano il passaggio che dalla creazione conduce al suo opposto. Se negli anni Settanta, nel pieno della riflessione metapittorica, l’avvicinamento scientifico e laboratoriale all’oggetto quadro dava il via ad operazioni in cui la dissezione era già avvenuta, nelle tele di Franziska Reinbothe la “cavia” è ancora sotto i ferri del chirurgo. In medias res, nel bel mezzo del racconto, “allineati”, ancora una volta, a Fatmah.
Fatmah
Fino al 31 ottobre 2024
Contemporary Cluster – Via Odoardo Beccari 8/10/12, Roma
info: contemporarycluster.com