Cultura e Legge di stabilità. La politica siamo noi

Occorre un impegno maggiore in investimenti culturali per garantire al Paese una consapevolezza migliore

Il divario tra chi può permettersi di accedere alla cultura e chi, invece, è costretto a rinunciarvi continua ad ampliarsi. È un dato allarmante che emerge da varie ricerche, l’ultima quella dell’Osservatorio sui Consumi Culturali degli italiani, presentati da Carlo Fontana, presidente di Impresa Cultura Italia-Confcommercio. Gli esperti di questo settore si sono concentrati, giustamente, su una analisi endogena del problema. Vorrei invece qui fare un tentativo di analisi esogena di questa crisi mettendola in relazione ad un tema politico di attualità, la Legge di stabilità, vale a dire lo strumento, che si approva entro la fine di ogni anno, attraverso il quale il Governo stabilisce le misure necessarie per raggiungere gli obiettivi economici definiti nel Documento di economia e finanza (DEF).

Del resto la relazione tra cultura (intesa come conoscenza, sapienza, erudizione, formazione) e politica è storicamente segnata da una forte interdipendenza. Nelle ultime due decadi però, probabilmente anche grazie all’avvento dei social network, sembra essersi persa la percezione del valore che questo legame produce. Si è arrivati ad un punto dove sembra si possa pensare di fare buona politica anche senza un elettorato non dico colto ma almeno preparato. Gli orientamenti politici ed il dibattito che sta seguendo la definizione della Legge di stabilità sono una testimonianza lampante di questo scollamento.

Appare del resto evidente quanto il problema di un elettorato poco informato e meno colto abbia ripercussioni significative sulla qualità delle scelte politiche. Quando la maggior parte della popolazione non ha una comprensione chiara delle questioni complesse legate alla gestione di un Paese – come appunto la legge di bilancio, la gestione del debito pubblico, o la distribuzione delle risorse – diventa più facile cadere nelle trappole del populismo. I leader politici, in questo contesto, sono incentivati a semplificare troppo i problemi e a proporre soluzioni immediate e attraenti, “sexy”, come è di moda dire oggi, che spesso non sono né sostenibili né basate su analisi economiche solide.

La politica populista tende infatti a sfruttare le emozioni e le preoccupazioni immediate degli elettori, puntando su slogan accattivanti e promesse difficilmente realizzabili, senza affrontare in profondità le cause strutturali dei problemi. Per esempio, la caccia agli extraprofitti delle banche o la lotta contro le multinazionali che evadono le tasse possono sembrare soluzioni facili e giuste, ma spesso sono più simboliche che efficaci. La realtà è che, a livello globale, questi soggetti trovano quasi sempre modi legali per ridurre il proprio carico fiscale.

Un elettorato informato è invece essenziale per una democrazia sana e per evitare derive populiste. La complessità della legge di bilancio, che incide direttamente sulla vita della nazione e sulla sua reputazione finanziaria, è un esempio lampante di come decisioni apparentemente tecniche abbiano effetti concreti sulle risorse disponibili per il sostegno ai redditi, la spesa sanitaria, e lo sviluppo economico e culturale. Chiedete alle prime cinque persone che incontrate di darvi una definizione della Legge di stabilità e vedete l’effetto che fa.

E allora pensando a possibili soluzioni si torna al tema della fruizione culturale. Che possiamo fare per migliorare questo stato di cose? Su cosa dobbiamo insistere per avere un elettorato più consapevole e informato? Non vi è dubbio che la chiave per migliorare la qualità della politica e per evitare che il populismo diventi l’unica risposta a problemi complessi è la cultura, intesa nella sua più ampia accezione.

La ricetta, soprattutto tra gli addetti ai lavori, è nota. Occorre investire in programmi di educazione civica che migliorino la comprensione dei cittadini su temi economici, sociali e politici. Le istituzioni e i politici dovrebbero impegnarsi a spiegare in modo più chiaro e trasparente le decisioni e le leggi, evitando tecnicismi inutili e semplificazioni pericolose in modo da permetterebbe ai cittadini di formarsi un’opinione consapevole. Occorrerebbe poi avere un coinvolgimento attivo dell’elettorato attraverso consultazioni pubbliche, dibattiti aperti e piattaforme che permettano un confronto continuo tra elettori e rappresentanti. E naturalmente la politica dovrebbe resistere di più alle tentazioni populiste guardando agli interessi reali e di lungo periodo della nazione.

Scrivendo, questo piccolo elenco delle cose da fare appare anche a me in larga parte come un libro dei sogni. Ma è appunto a questo che serve anche la cultura. A trasformare idee apparentemente irrealizzabili in realtà, a cambiare il corso delle cose, a costruire nuovi modi di vivere insieme. E’ in questi ambiti che cultura e politica hanno sempre dato il meglio di se stessi. E allora forse occorrerebbe che anche noi, appartenenti a quelle esigua schiera degli “happy few” che ancora provano a vivere informati, dovremmo usare quel poco o tanto che abbiamo per dire che forse in questa Finanziaria si potrebbe spendere un po’ di più per la scuola, per le università e per quella cultura di cui tutti amano solo parlare.