Il sistema dell’arte è “compatibile” con i nuovi temi incalzanti a proposito dell’emergenza ambientale? Quanta energia (non è solo una metafora) si deve mettere in campo per produrre una mostra o una fiera? E i consumi, di cosa stiamo parlando esattamente? Impossibile offrire risposte certe e tutto sommato meglio mantenere l’ambiguità delle contraddizioni che sono sempre interessanti.

Se da una parte sempre più artisti considerano fondamentale l’approccio etico alla materia e, almeno a livello di contenuti, ne parlano, ci ragionano, elaborano teorie impegnate e consapevoli, coerenti all’atteggiamento politicamente corretto diventato ormai obbligatorio – non esprimersi in tal senso significa, automaticamente, essere esclusi dal sistema “che conta”, non essere presi in considerazione, addirittura farsi additare come qualunquisti e reazionari – dall’altra non è pensabile per gli artisti stessi rinunciare alle occasioni espositive e di conseguenza spostarsi in aereo, far viaggiare le loro opere su mezzi inquinanti, opere che a loro volta sono state prodotte e c’è da chiedersi con quali materiali, quanta energia è stata impiegata e se sono stati considerati sistemi alternativi, più ecologici.
Agli artisti piace molto trattare di tali argomenti, anche per sentirsi alla moda, poi ciascuno fa come vuole perché si sente al riparo da critiche o, al limite, dà la colpa a un altro. Atteggiamento che mi ricorda chi si lamenta per il traffico in autostrada, nei fine settimana di agosto, e anche lui ha deciso di mettersi in viaggio negli stessi giorni. Fino a non troppo tempo fa, ad esempio, il numero delle fiere (per limitarsi all’arte contemporanea) era piuttosto contenuto e concentrato sempre negli stessi posti.
Oggi assistiamo a una proliferazione globale che ha coinvolto tutti e cinque i continenti, spostandosi dal centro verso le periferie e implicando notevoli sforzi produttivi. Basti prendere il “caso Italia”: quattro fiere principali nel nord, una emergente a Roma, senza contare quei fenomeni più marginali, le realtà piccole eppure vivaci dove fa affari chi ha occhio anche se non ha troppo denaro da investire. Il paesaggio fieristico nostrano è dunque in continuo movimento, sposta tante persone e cose, fa guadagnare alberghi, ristoranti, taxi, negozi, ed è ovviamente molto ben accetto dalle città ospitanti.

Conti alla mano, nessuno si preoccupa di verificare quanto queste “migrazioni” momentanee e queste concentrazioni impattino sull’ambiente, perché lo stesso ragionamento si potrebbe fare per una partita di calcio, un grande evento, il raduno degli alpini o il gay pride. L’arte – ma solo se parliamo di cose concrete – non crede nella decrescita felice che diversi autori nel mondo ci propinano come la ricetta per risolvere problemi: vivere etici e felici nel pieno rispetto della natura. Usano materiali riciclati e poi tutti a Basilea, dove forse qualcuno riesce a mangiare vegetariano mentre gli altri ripiegano su abbondanti pasti di carne. Il sistema dell’arte non può essere ecocompatibile e pur dedicandosi alla ricerca di energie rinnovabili è costretto come tutti a usare quelle che ci sono, perché il tempo è poco e la fretta tanta. Peraltro, non stiamo ancora parlando di numeri mostruosi rispetto a tutto ciò che ci circonda ed è comunque vero che l’ambiente lo salvi anche attraverso piccoli gesti quotidiani, tra cui la raccolta differenziata che personalmente trovo angosciante.
L’arte fa ciò che può anzi ciò che ha sempre fatto: lastricare la propria strada di buone intenzioni, poi vada come vada. Benissimo l’atteggiamento etico e responsabile, però vendere un lavoro conta di più, e se ci sarà da spedirlo dall’altra parte del mondo si cercherà senz’altro il sistema più veloce, non quello più ecologico.