I mostri non sono i cattivi del racconto, ma i suoi protagonisti. Intervista a Camilla Alberti

Quando parte la videochiamata, in Italia è quasi ora di pranzo, mentre in Corea del Sud, dove attualmente è in residenza l’artista milanese Camilla Alberti, finalista del Talent Prize 2023, è quasi l’imbrunire. Lo studio nel quale sta lavorando è un bellissimo loft: le vetrate alle spalle dell’artista lasciano entrare una luce calda, rassicurante, tipica delle giornate di fine estate.

Camilla Alberti (Milano, 1994) si laurea alla NABA poche settimane prima del Covid, mentre è in residenza alla Casa degli Artisti di Milano. L’esperienza dell’isolamento si rivela un’opportunità per concentrarsi sul lavoro senza distrazioni e focalizzare la sua ricerca sull’aspetto della “perdita del controllo” creando architetture con materiali di scarto, successivamente lasciate abitare da altri organismi vivi e posizionate in ambienti non controllati dalla mano dell’artista.

Alberti racconta di aver passato il periodo del lockdown ad allenarsi nel perdere il controllo nei confronti del suo lavoro; soprattutto facendo esperienza di un altro tempo. «Quando si instaura una collaborazione con un altro organismo, con qualcosa che è molto distante da te e che non ha i tuoi obiettivi, bisogna inserire in questa relazione le diversità legate alle differenti tempistiche di vita. Lavorare con le piante, ad esempio, è stato un allenamento all’attesa».

Le prime «collaborazioni tra organismi», come le chiama l’artista, condizionano radicalmente la composizione del processo scultoreo teso, ora, a divenire sempre più ibrido nella forma. Nascono in questo contesto i primi “mostri”. «Ho smesso – racconta Alberti – di focalizzare la mia attenzione soltanto sull’architettura per realizzare le mie prime creature: degli ibridi tra identità corporee e spaziali, dove non c’è più possibilità di riconoscere ciò che si sta guardando, ma bisogna necessariamente conoscerlo di nuovo. Il tema della mostruosità dell’organismo – continua – è diventato per me una risorsa: sin da piccola ho guardato ai mostri delle fiabe come a delle entità positive. Questa affezione l’ho poi teorizzata leggendo il libro Le promesse dei mostri di Donna Haraway nel quale l’aspetto dell’ibrido porta il lettore a chiedersi se si abbia più bisogno di figure antropocentricamente eroiche o di figure mostruose, ibride e metamorfiche».

L’obiettivo che si pone Alberti, forte di questa riflessione, diviene quello di riscrivere la narrazione che abitualmente vuole al suo centro l’eroe, in tutto il suo antropocentrismo, elevando l’antagonista per eccellenza allo status di protagonista. Per farlo, cerca di comprendere in che modo le ibridazioni dell’irriconoscibile possano definire nuovi scenari all’interno del suo lavoro e tracciare nuovi sentieri per accendere dibattiti, creare spazi comuni e aprire nuovi punti di vista.

Compimento di questa sperimentazione è stata la partecipazione alla Biennale di Gwangju 2023. «Il lavoro presentato per il Padiglione Italiano è stato il frutto di tre mesi di residenza al Seoul Institute of the Art durante i quali sono stata a stretto contatto con gli studenti, che hanno seguito il mio processo creativo attraverso dei workshop. Con loro è successo che, mentre utilizzavo le parole, il tentativo di mettere in luce la vita dell’altro non succedeva. Nel momento in cui il territorio è diventato pratico, non più solo teorico, si è riusciti a incontrare questo altro».

A fianco della scultura, nel lavoro di Alberti si pone il ricamo industriale. All’inizio, con gli scarti di produzione del ricamificio di famiglia, realizza le sue prime maquette, per poi approcciarsi all’impiego diretto della macchina da ricamo. Una riflessione in continua evoluzione, che sta alla base anche del lavoro presentato per il Talent Prize 2023, Bizarre Remains. Oscillante tra l’una e l’altra pratica vi è la parola chiave del suo lavoro: rovine.

Per l’artista le rovine sono gli ambienti adatti per le figure mostruose, l’origine dove l’ibrido può nascere. «Nel nostro immaginario romantico la rovina è quello spazio abbandonato, in cui non ci abita nessun essere umano. Ma è proprio grazie a quell’abbandono, che lo spazio in rovina è portato a una metamorfosi continua, o meglio: diviene uno spazio di costruzione attiva, un ecosistema tessuto da una pluralità di organismi. Da questo luogo non si può scinderne una sola parte. Tutto cede insieme e tutto accade grazie all’altro».

Nel buio che man mano invade la stanza, Camilla lascia la conversazione,  rimane in mente l’(im)perfezione degli spazi appena descritta: hanno un loro tempo, all’interno del quale sono iscritti tutti i tempi degli organismi che la abitano. Allora forse il segreto della vita, in qualsiasi forma essa si manifesti, sta nell’abbracciare lo scarto tra un tempo e l’altro e, in quel vuoto, lasciare semplicemente che le cose accadano. 

Il lavoro presentato da Camilla Alberti per il Talent Prize, Bizarre Remains, parte da una commistione tra l’aspetto tradizionale della macchina da ricamo e le sue creature ibride, portando la sua ricerca un passo oltre: non più solo frutto di una raccolta di oggetti, ma una vera e propria raccolta di forme difficili da riconoscere. Il titolo dell’opera cita direttamente il nome di una particolare tipologia di tessuto tipica del 1600-1700: i bizarre, a cui l’opera si ispira. L’artista ha studiato questi tessuti nella collezione della Fondazione Antonio Ratti dove ha analizzato le trame dei bizarre elaborate mixando elementi floreali, architetture, animali, forme stravaganti, esotiche e sconosciute provenienti dalle grandi scoperte dell’epoca. Un’ibridazione d’immagini che ha prodotto figure mostruose dalla difficile interpretazione, la meraviglia della scoperta unita alla paura dell’ignoranza.

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