Dominique White è una giovanissima artista britannica di eccezionale talento, potrebbe esporre il suo lavoro nel più anonimo degli scantinati e lo illuminerebbe con la potente eleganza del suo messaggio.
Immaginate, quindi, di scendere nel sottosuolo all’interno della Conserva di Valverde – una cisterna del 1563 sul fianco delle colline bolognesi – arrivare nella sala maggiore, alzare lo sguardo ed essere sopraffatti dall’imponente installazione Fugitive of the State(less) sospesa a dieci metri d’altezza: una perla nell’ostrica, una vertigine dal basso.

Nelle vene di Dominique White scorre la mitologia classica legata al viaggio in mare come via di speranza e di morte. Racconta una diaspora immaginaria e fallimentare della Blackness verso un luogo libero da vessazioni, in un futuro prossimo che però non arriva mai: a infiniti naufragi corrispondono infiniti tentativi di salvezza.
Come un Truman show ogni giorno la barca di White prende il largo con coraggio, ma il finale non cambia: nessuno sbarco, nessun riposo.
Le sue opere sono vele lacerate dal vento e dall’acqua, di un bianco caldo e lattiginoso come la spuma delle onde di William Turner in The Shipwreck.
Incagliati fra i tessuti stracciati e nelle reti da pesca sfibrate appaiono foglie e conchiglie, fiochi segni di vita piccoli come lucciole.
Dominique White è la pronipote che Omero e Virgilio avrebbero voluto, Géricault la inviterebbe a cena, Ulisse anche, ma troverebbe una scusa per rimandare l’appuntamento.

La cisterna per sua natura raccoglie e nutre, per questo motivo il contrasto con la spettralità dell’installazione è struggente: sono i resti di un naufragio che si innalzano altissimi in un atto di resurrezione.
C’è in effetti qualcosa di sacro nei drappeggi che cadono dall’alto come un Cristo velato senza corpo, forse l’attaccamento a un ideale nonostante la sconfitta.
Per lei il mare è la casa degli apolidi, una via di fuga e una strada senza ritorno.
Il Mediterraneo è antropologicamente considerato il sesto continente per via delle innumerevoli spoglie che custodisce sul fondale, l’Atlantico ha visto nascere il gospel per alleviare le sofferenze durante le deportazioni.

Nel 1993, curiosamente l’anno di nascita della White, il noto storico e sociologo Paul Gilroy pubblicò The Black Atlantic, un saggio sulla questione della diaspora africana raccontata proprio attraverso la metafora della navigazione, instabile e mutevole come il concetto stesso di identità.
È interessante come diverse generazioni di artisti e letterati vicini alla stessa tematica – pensiamo anche ad Arthur Jafa – abbiano scelto suggestioni legate all’acqua, come se un intero popolo fosse immerso nel liquido amniotico in attesa di (ri)venire al mondo.

Sospesa fra cielo e terra, l’opera di Dominique White contiene un messaggio di resistenza e glorioso fallimento, l’ostinata ricerca di una riva dalla quale partire e nella quale approdare.
Il cielo stellato è sopra di lei, la legge morale è incagliata tra le foglie come un memento.
Tutti gli elementi di questa maestosa installazione sembrano sgocciolare nei rivoli della cisterna, per inondare ogni fontana della città e toglierci la sete.
L’installazione faceva parte di Art City, il programma collaterale di Arte Fiera che quest’anno ha regalato un palinsesto d’eccellenza, dal mondo grottesco di Nathalie Djurberg al Cassero all’eccezionale mostra di Yuri Ancarani al Mambo.
Defilata dal caos della fiera, Dominique White è stata una vera e propria camera di decompressione, arrivarci non è semplice ma va bene: siamo riusciti a raggiungere il porto in un normale pomeriggio di febbraio.