«Questa mostra prova a fare il punto sulla situazione dell’arte all’epoca della riproducibilità digitale – così il curatore Porter Ducrist introduce la mostra Broken Screen in occasione della sua inaugurazione presso Spazio In Situ, artist-run space romano nel quartiere Tor Bella Monaca – Oggi – aggiunge – siamo consapevoli che il digitale ha ormai contaminato la nostra esistenza, e ha determinato il fallimento dell’arte. Come cambia lo statuto dell’arte e il ruolo del fruitore nell’epoca digitale? Questa mostra non dà risposte, pone domande aperte».
L’arte propriamente detta, cui Ducrist fa riferimento, è la mymesis che ha accompagnato la storia della cultura occidentale fin dall’antichità greca, fin dai tempi di Platone. Nel corso dei secoli gli artisti si sono cimentati nello strenuo tentativo di imitare la natura e il reale, cercando di varcare il confine tra finzione e realtà. «L’arte contemporanea – spiega Ducrist – entra letteralmente nella realtà, pensiamo ad esempio alla Abramović, nelle cui opere sostanzialmente la performance si ferma perché la realtà è troppo forte. Oppure a Chris Burden che si fa sparare addosso e traumatizza il pubblico che crede si tratti di una finzione mentre è una realtà. Il digitale non funziona così».
Tale tensione verso la realtà ha portato all’esplosione del confine tra questi due mondi (l’illusione e il vero). Il percorso del digitale è inverso: fa implodere questo rapporto perché non è più la finzione a tentare di essere realtà, ma è la realtà stessa ad essere contaminata dal virtuale, dalla sua spettacolarizzazione ed evanescenza. “Trasformati in essere virtuali, siamo diventati la materia dei nostri stessi sogni.” (Fred Ritchin, Dopo la fotografia).
Da qui nasce l’idea di un’esposizione che indaghi da un punto di vista globale e internazionale (sono stati coinvolti 8 artisti provenienti da Italia, Svizzera, Germania, Inghilterra e Francia) le criticità dell’universo digitale e i loro effetti sull’individuo, uno schermo rotto attraverso le cui crinature possiamo camminare.
Lo spazio espositivo mima un grande desktop: ci si immerge in un mondo iperreale in cui spazio e tempo si ripiegano su sé stessi. Lo spazio si riduce allo schermo (display), il tempo ad un presente istantaneo, l’”adesso”. In questo percorso caleidoscopico, dove ogni immagine come un’icona rappresenta un output e un input da e verso le altre opere – dalle quali in una mise en abîme continua si apre ogni volta una nuova finestra – lo spettatore vaga creando collegamenti (link), come fosse un puntatore di un mouse, un’essenza segnica che perde la sua corporeità.
A catturare la nostra attenzione a inizio percorso è un uomo che indossa una “motion capture suit” (tuta che registra i movimenti delle azioni da animare in un videogioco) costellata di lampadine luminose. Il performer procede tra l’esterno e l’interno della galleria, si ferma in più punti a camminare sul posto, bloccandosi in un “freezing” che lo immobilizza (Performance di Vincent Tanguy). Successivamente, la soglia del mondo virtuale che lo spazio espositivo vuole oggettivare viene sottolineata e resa ancora più visibile da un’opera di Fabien Zocco. All’esterno le finestre della galleria vengono trasformate in schermi sulla cui superficie sono proiettate delle frasi che cambiano continuamente: alla matrice del titolo “I am… and you are…” vengono aggiunti degli aggettivi selezionati dal computer in maniera casuale, creando delle frasi prive di correlazioni, con effetti ora plausibili, ora comici o assurdi.
Entriamo e incontriamo un’altra opera che ragiona sul tema del confine e della soglia: si tratta di una fotografia di Sarah Ancelle Schönfeld. Essa mostra la superficie di un iPad bagnata da alcune gocce d’acqua che inquadra un pattern di mattonelle bianche. Le gocce creano un “effetto lente” e ingrandiscono i pixel che compongono l’immagine digitale, arrotondando i quadratini secondo l’andamento sferico della propria forma. Ne risulta un disorientamento dell’osservatore, che non sa più se si trova al di qua o al di là del frame. Nella seconda sala ci troviamo di fronte al lavoro di Cédric Raccio, che ricopre un’intera parete. Una foto, che coglie il magico momento di un tramonto sul lago di Ginevra, viene totalmente stravolta, fortemente allungata in orizzontale. Si crea così un’enorme carta da parati a strisce colorate. L’immagine che immortalava un hic et nunc adesso è astratta, fuori dal tempo e spersonalizzata.
Come una cartella sul desktop che slitta sopra un’altra icona, l’opera di Maurizio Vicerè si sovrappone a quella appena descritta, e si rispecchia sulla parete opposta in un altro suo quadro similare. L’artista ha ingrandito un dettaglio di una fotografia fino a trasformare l’immagine in un insieme di sfumature tra il bianco e il nero. La foto è stampata su una tela nautica che ha una trama trasparente: dunque si intravede attraverso la superficie il telaio che vi è dietro, ne emerge una mise en abîme. La finestra sull’abisso che il quadro propone ricorda il concetto di arte immersiva di Mark Rothko, perde però tutta l’intensità tecnica dell’opera pittorica, ed evapora come in una nebbia evanescente. Nell’angolo a destra della sala si scorge il video di Vincent Tanguy, The Wandering. Questa volta il performer, un uomo comune e un po’ solitario che vaga per la città di Shanghai, è caratterizzato dal player indicator tipico dei personaggi dei videogiochi, reso reale attraverso la sua consistenza inaspettatamente materica: un hula hoop luminoso che inquadra i suoi piedi, sorretto alla vita del personaggio da diversi fili di nylon, in alcuni punti del video ben visibili. Una riflessione sul controllo esercitato sui cittadini dai regimi autoritari, e soprattutto un gioco che rende reale qualcosa che era solo immaginato, con una mymesis metateatrale d’effetto.
Sulla parete divisoria delle due sale risponde un altro video di Rowena Harris. In essa una donna, del cui corpo sono visibili solo le mani e la testa, si muove nello spazio domestico compiendo diverse azioni quotidiane e soprattutto si relaziona insistentemente con uno smartphone, del quale possiamo osservare lo schermo e le conversazioni delle chat attraverso una loro proiezione. La narrazione rappresenta la smaterializzazione e la perdita della nostra realtà corporea cui i social media e il digitale ci conducono, riducendoci a oggetti comunicanti su dispositivi che funzionano tramite impulsi derivanti da simboli e segni piuttosto che da vibrazioni palpitanti e umane. Il tema della scomposizione e sparizione del corpo nonché dell’intimità torna in altre due opere della Harris presenti in più punti della galleria: un’istallazione composta da una lampada da solarium posta in verticale con un asciugamano appeso al di sopra e due sculture in cemento grigio che rappresentano delle scarpe da ginnastica cui manca la punta. Entrambe le opere sono disposte su tappetini componibili blu elettrico, un espediente che induce a leggere gli oggetti come progetti di design in 3D su fogli di lavoro informatici.
Nell’angolo a sinistra dello schermo di Tanguy si staglia un grande “arazzo” di Sarah Ancelle Schönfeld, una pelle di mucca sulla cui superficie è stampata una scena del film 2001: Odissea nello spazio. Al centro dell’immagine uno squarcio ci risucchia in un’altra realtà, quella del futuro, e al contempo il supporto dell’opera richiama un mondo primordiale e arcaico che ci fa tornare indietro nella macchina del tempo. Il lavoro di Marco Strappato è composto da due elementi in cemento, che ci riportano ad uno scenario urbano, da un globo marmoreo, che rimanda alla forma terrestre e all’ambiente naturale, ed infine da un iPad che riproduce paesaggi fissi o in movimento di montagne, dune nel deserto, foreste. Sullo schermo sperimentiamo l’attraversamento fittizio di un paesaggio illusorio, che subiamo passivamente in una maniera alienante, come fossero degli sfondi preimpostati sul computer. Un’esperienza lontana anni luce da quella praticabile nel paesaggio naturale reale.
L’opera di Barbezat-Villetard dialoga col tema dello spettacolo e dell’alienazione espressa da Strappato e con quello della quotidianità intima portato avanti da Harris. Si tratta di un divano “caldo”, come se qualcuno ci si fosse seduto sopra poco prima: un oggetto che vuole interrogarci sul passaggio e la relazione tra persone, ma anche sulla fruizione dell’opera d’arte sui divani dei musei, forse attiva, forse leggermente passiva, sicuramente simile alla visione di un film in un ambiente domestico. Infine conclude simbolicamente la mostra Cédric Raccio, con il suo Landscape from Earth: un pannello di vetro trasparente al centro del quale un adesivo comunica “Image not available”. Il supporto riflette la nostra immagine, ma in realtà non ne contiene nessuna, o almeno non ancora. Si tratta della segnalazione di un malfunzionamento o di un’informazione in caricamento, che bisogna attendere, ma che allo stesso tempo apre nuove possibilità. Sembra una metafora della mostra stessa, una domanda in attesa di risposte, l’evidenziazione dei potenti quanto fragili meccanismi della modernità.
Il 22 giugno è previsto un nuovo appuntamento performativo.
Broken Screen
Barbezat-Villetard, Rowena Harris, Cédric Raccio, Sarah Ancelle Schönfeld
Marco Strappato, Vincent Tanguy, Maurizio Vicerè, Fabien Zocco.
A cura di Porter Ducrist.
Fino all’8 ottobre 2022.
Spazio In Situ, Via S. Biagio Platani, 7
www.spazioinsitu.it









