Cosa fa di un’opera un originale? A cosa serve l’unicità? Cosa è una copia? Dalle Nozze di Cana agli NFT, un tentativo di risposte

DA INSIDEART #122

Cosa fa di un’opera un originale? A cosa serve l’unicità? Cosa è una copia? Dalle Nozze di Cana agli NFT, un tentativo di risposte

Nel 2007, anno in cui mi accingevo a riordinare tutti i miei appunti sulla teoria dell’autenticità in arte, non avrei certo pensato che il lavoro svolto avrebbe avuto una vita piuttosto serena fino al 2021 con l’arrivo nel pubblico dominio e nelle discussioni più accese sui temi finalmente attualizzati dell’autenticità degli NFT.

Prima di addentrarci in questi, è però necessario un piccolo passo indietro e spiegare perché, almeno alle nostre latitudini, il 2007 può essere stato un anno di ‘svolta teorica’. In quell’anno a Venezia, nell’Isola di San Giorgio Maggiore, veniva “restituita” l’enorme tela raffigurante Le Nozze di Cana realizzata da Paolo Caliari, detto il Veronese. Il 6 giugno 1562, il pittore fu chiamato nell’isola per dipingere la parete di fondo del refettorio benedettino del complesso architettonico progettato da Andrea Palladio e ultimato quello stesso anno.

Autenticità

Icilio Federico Joni, Madonna col bambino

L’intensa collaborazione tra il pittore e l’architetto furono senz’altro determinanti per il prodigioso risultato finale la cui fama, fatta di copie, citazioni, incisioni e piccole versioni di mano di moltissimi artisti di passaggio a Venezia, attraversò presto le Alpi e indusse, nel 1797, Napoleone Bonaparte a volersene appropriare come risarcimento delle spese di guerra contro la Serenissima. La tela fu smontata dalla parete l’11 settembre di quell’anno, fu tagliata in diverse sezioni e spedita al Musée du Louvre dove, dopo alcuni restauri, è tutt’oggi conservata. Dotata di una imponente cornice dorata, illuminata con luce artificiale, collocata troppo in basso rispetto alla prospettiva rappresentata è oggi ammirata da migliaia di schiene provenienti da tutto il mondo.

Dopo essere stata un tutt’uno con l’architettura palladiana per 235 anni, l’opera del pittore veneziano veniva dunque allestita nel museo parigino, esattamente davanti alla Gioconda. Nonostante le numerose promesse di restituzione, l’impegno di uomini di cultura e di politici, la grande tela non dava cenno di poter tornare in laguna.

Ecco che si decise, nel 2006, di realizzarne un facsimile utilizzando le più recenti strumentazioni tecnologiche e incaricando per la delicata operazione Factum Arte di Madrid. Il facsimile in scala 1:1 del dipinto che misura circa 70 metri quadri è stato realizzato scansionando l’originale a Parigi, fotografandone ogni più piccolo dettaglio per essere poi ‘ridipinta’ da una stampante 3D al fine di ottenere la resa materica della superficie pittorica. Lo studio della tela e delle preparazione dell’origina- le, nonché della composizione dei colori e delle vernici hanno consentito di realizzare un facsimile talmente perfetto da essere indistinguibile a occhio nudo dall’originale.

Autenticità

Angelo Annunciante attributed to Gaudenzio Ferrari, Scanning 3D

Riposizionata sulla parete di fondo del refettorio di San Giorgio, l’opera tornava in tutto il suo splendore, restaurata e nel contesto per il quale era stata pensata. Assumendo questa vicenda a caso studio, avevo ipotizzato una evoluzione del medium pittorico dalla consueta condizione autografica a quella allografica semplicemente considerando che una scansione non è altro che una traduzione in codice binario, e quindi in un ‘alfabeto’, di quanto è apparentemente incodificabile in pittura: la pennellata.

Se le arti allografiche, dotate di sistema notazionale, come la musica (lo spartito), l’architettura (il progetto) o la letteratura (l’alfabeto) sono per definizione infalsificabili in quanto ogni esatta corrispondenza al sistema di riferimento genererebbe una versione ‘originale’ dell’opera, ora la pittura acquisiva il medesimo privilegio. Un sistema informatico correttamente compilato consentiva l’esatta realizzazione dell’opera originale. Di quella vicenda è stato scritto molto e molto ci è servita per segnare un confine teorico su cosa consideriamo arte e cosa consideriamo originale.

Si è trattato, comunque, di un’opera d’arte fisica digitalizzata, tema ben diverso dall’arte nativa digitale che, in questi giorni, è protagonista dei dibattiti sulla possibilità di essere non falsificata ma ‘originalizzata’ ex post (In tempi di conio di valuta digitale, mi sia concesso il conio di un nuovo, terribile termine). I temi dell’autenticità, che sono in controluce i medesimi di quelli che trattiamo quando parliamo di falsificazioni, possono es- sere suddivisi in due grandi macro aree di competenza: da un lato l’aspetto artistico che vaglia la funzione estetica dell’oggetto, dall’altro l’aspetto economico e del valore di mercato di un dato oggetto. Nella mia ricerca, confluita poi nella pubblicazione L’autenticità nell’arte contemporanea, ZeL Edizioni, l’intento è stato quello di concentrarmi esclusivamente sul primo dei due ambiti, liquidando, forse con troppa leggerezza, le problematiche del mondo del collezionismo che nutrono incessantemente il mercato come anche la produzione artistica.

Oggi, però, siamo costretti e riunire queste due facce della stessa medaglia perché il processo di autenticazione a posteriori nasce dall’urgenza di assegnare un valore primariamente feticistico alle opere, valore che altro non è se non il padre del collezionismo e delle dinamiche di compra-vendita sulle piattaforme online che sfruttano la tecnologia blockchain la quale, ricordiamolo, ha (avuto?) l’ambizione di scongiurare l’esuberanza degli intermediari a favore del rapporto di- retto tra artisti e collezionisti e dove, per intermediari, non intendiamo solo i galleristi ma anche i curatori, per fare un esempio. Posso serenamente sostenere che il mio libro sembri, oggi, interrotto a un capitolo dalla fine, quello che potrei scrivere in questi giorni, ma in esso la ricognizione sulle pratiche e sulle teorie dell’autenticità e della falsificazione crea un presupposto teorico senza il quale assai difficilmente potremmo affrontare i temi dell’unicità o della scarsità tanto cari ai sostenitori degli NFT. Non per mio merito, ovviamente, ma per tutte le ricerche di grandi pensatori contemporanei lì riportate, analizzate e confrontate.

Autenticità

Veronese, Nozze di Cana, facsimile, cenacolo Palladiano, photo Matteo De Fina

In passato un’opera nasceva unica e ad essa veniva abbinato un certificato di autenticità, una carta d’identità firmata dall’autore o dai suoi eredi, che attestava una semplice cosa: quest’opera è esattamente l’occorrenza (token) unica esistente. Un certificato di autenticità non si poteva, infatti, abbinare a un concerto di Brahms in quanto la partitura era la sorgente (type) da cui ciascuna esecuzione correttamente suonata da parte di una orchestra ne risultava originale. L’attribuzione dell’NFT, che altro non è se non il codice fiscale dell’opera, contribuirebbe dunque a crearne la ‘scarsità’ volta all’aumento di valore. Con l’arte digitale, i fattori si sono invertiti e il risultato è rimasto lo stesso: con la digitalizzazione sia dell’opera che dei suoi certificati di autenticità, siamo passati al piano virtuale di una prassi anticamente fisica e abbiamo colto l’occasione di mescolare le carte, come nel caso di Free Comb with Pagoda, opera ‘fisica’ di Jean Michel Basquiat del 1986, alla quale è stato abbinato un Non Fungibile Token oppure, viceversa, di stampare e considerare certificato di autenticità quell’unico esemplare su carta di un NFT (e quindi l’unica cosa tecnicamente collezionabile e vendibile) di un’opera d’arte nativa digitale.

Ciò che non è mai cambiato con l’avvento delle nuove tecnologie e mai cambierà è il fatto che l’autenticità di un’opera è nel giudizio che ne diamo, non nell’opera in sé, non è nel suo DNA. Neppure se un dipinto contenesse in sé un microchip per identificarlo potremmo essere certi della sua unicità e della sua relazione con l’autore perché, sia egli pittore o hacker, un falsario può essere sempre più bravo dell’esperto che indaga e del collezionista che riconosce oltre che, per assurdo, dell’autore dell’originale. L’assegnazione dello statuto di autenticità è un pro- cesso di riconoscimento di questo valore, nella tensione che si crea tra i due opposti falso-autentico tra i quali si posizionano tutte le opere d’arte del mondo. L’esito di questa disputa può essere temporaneo, non dato una volta per tutte: si pensi al concetto di ‘riattribuzione’: prima l’opera è autentica di un dato autore, poi viene attribuita a un altro e infine torna ad essere di mano del primo. Un certificato di autenticità è pura documentazione temporanea per la compravendita.

Autenticità

Veronese, Nozze di Cana, facsimile work in progress, 2006

Ma in questo processo di attribuzione dell’autenticità, nell’era digitale compare un altro elemento molto importante a livello teorico che abbiamo visto essere la scarsità. Il fatto che un’opera sia prodotta (o vendibile) in una quantità limitata di esemplari la rende collezionabile, aspetto fondamentale per la creazione di valore nella vendita e caratteristica difficile da attribuire a opere che possono viaggiare via email senza correre il rischio di deteriorarsi. L’arte contemporanea non è forse l’unico ambito per la quale siamo disposti a pensare virtualmente? Non solo al denaro ma anche a una collezione che, anche qualora raggiungesse le decine di migliaia di esemplari, potrebbe essere contenuta tutta in una piccola scatola nera.

Ora c’è da chiedersi un’ultima cosa: quanto il supporto di un’opera contribuisce alla sua artisticità? Può innestarsi nel supporto stesso il giudizio di autenticità o di falsità? E quando il supporto è obsoleto, quando ad esempio il server non risponde più a comandi troppo aggiornati, l’opera d’arte cessa di esistere? Ai developers l’ardua sentenza.