Human forms

Kiryat Gat

Installazioni e video di Ivo Bisignano dallo scorso agosto godono di temporanea collocazione entro le Bell Caves del parco nazionale di Beit Guvrin, in Israele. Sito di cui subito colpisce l’analogia tra le grotte a campana con l’oculo in cima da cui, in antico, si incominciava a scavare le pareti calcaree per ricavarne materiale costruttivo, e la cupola del Pantheon. Non che la scelta stupisca, tutt’altro, data la formazione di architetto di Ivo, che lo rende oltremodo sensibile allo spazio. In gioco è poi lo spessore temporale di un luogo impiegato come cava di pietra in età bizantina, il suo pondus storico, e certo l’antichità, se non addirittura la preistoria di quella natura ipogea costituirebbe di per sé una premessa autorevole. Ma nel caso di Ivo Bisignano non basterebbe, perché egli tende a elevare a potenza. Questo suo procedere non si riflette tanto nell’allestimento, dotato di un nitore ritmico che gli impone di creare relazioni e pause in termini quasi razionalisti: non a caso nel video Divine proportion viene rivisitato il modulor di Le Corbusier. Il potenziamento è piuttosto semantico, dunque sta nel cuore del suo fare, e per un motivo che rende Ivo Bisignano atipico nel panorama generale dell’arte: la gratitudine nei confronti della tradizione, che diventa per lui bacino di contaminazione inventiva, ma anche l’omaggio a contemporanei amati o stimati.

Non sono soltanto la grotta preistorica, il tempio romano, l’unità di misura di un maestro del Movimento Moderno; sfilano anche i danzatori di Oskar Schlemmer, nelle sue sagome lignee oggettuali e virtuali, il radicalismo bianco-nero di Malevič a cui si aggiungono le penne degli uccelli di Hitchcock, in Birds, e poi le ombre di William Kentridge derivate sulle pareti dall’illuminazione delle sculture, e forse anche qualche lacrima di Francesco Vezzoli, in Cry.

Il tributo non è mai affrontato un passo alla volta; per esempio, in due momenti successivi di Metamorphosis si sommano il profilo interno della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza di Borromini, la mela verde desunta da Magritte ma puntinata di ritratti autografi e la Mae West di Dalí, il cui naso reca però il segno di Piero Fornasetti mentre gli occhi sono gioielli progettati dallo stesso Ivo. L’esperimento nelle grotte fuori Tel Aviv non è arte totale perché contemporaneamente scultura, video arte, arte ambientale, ma più ancora perché prende tutto e tutto restituisce amplificato. Con una volontà narrativa che infatti ha bisogno, da un lato, di un contesto di respiro ampio, proprio per bilanciare la densità dotta del contenuto; dall’altro però scopre un amore per l’arte e la sua storia che raramente viene dichiarato a voce così alta, senza veli, e non tanto per pudore, ma per il frequente egotismo che rende gli artisti per lo più autoreferenziali.

Invece Ivo Bisignano scopre le sue fonti, le celebra, ne fa oggetto di venerazione al punto che le colloca entro un ventre sacrale, lontano da circuiti commerciali con cui pure ha dimestichezza. A tal proposito: soprattutto alla luce delle sue scelte più recenti, sembra lecita una rilettura della sua militanza iniziale nel mondo della moda, e non certo per ansia di nobilitazione. Ivo Bisignano ha colto nella moda l’aspetto che ha poi sviluppato nella sua arte, lo sguardo che può essere retroattivo e al tempo stesso anticipatorio. I suoi sensori sempre allertati lo rendono ricettore e filtro di una moltitudine di riferimenti che fondano e alimentano l’immaginario collettivo contemporaneo. Lui raccoglie le immagini, le cuce fra loro secondo una trama personale, come quando fissa nodi nell’ottone per imbrigliarvi delle pietre, lavorando come un monaco buddista che pratichi meditazione (come ha colto con superiore lucidità il regista Filippo Ticozzi, nel corto dedicatogli nel 2017, durante la residenza alla civica scuola d’arte di Pavia). 

La mostra Human Forms è per Bisignano un’occasione introspettiva. Non lo dice solo la valenza simbolica della grotta, ma anche l’apertura e la chiusura di Face con macchie di Rorschach impiegate come sipario teatrale; come macchie di Rorschach il susseguirsi dei ritratti infantili di Innocence, infatti raddoppiati o dimezzati a seconda dello sguardo. Ancora, proprio il video dal titolo più che emblematico di Metamorphosis si conclude con un autoritratto che ascende con lo slancio di una navicella spaziale su uno sfondo di piramidi. C’è un momento, nel nomadismo di un artista complesso e prolifico come Ivo Bisignano, in cui è bene fermarsi e respirare a fondo. Dalla Sicilia a Milano, da Milano a Londra e da lì a Tel Aviv, in una sorta di moto oscillatorio continuo. Nelle grotte di Beit Guvrin Ivo Bisignano si ferma e riavvolge i molti fili della sua storia. Qui sì, torna l’origine siciliana, in una componente però culturale antica quasi aprioristicamente data, che è quella del cantastorie, colui che portava avanti una tradizione orale offrendola per strada, e accompagnandola con cartelloni illustrati: il cantastorie siciliano era erede della figura del cantore della Grecia di Omero.

Ivo Bisignano è a sua volta un aedo, il cantore dell’epos di un mondo globalizzato ipericonico, che qui si ascolta e si ripensa nell’eco di un grembo primordiale.

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