A pochi giorni dalla conclusione di A Ten Boed Poynt in a Wave abbiamo chiesto ai due artisti protagonisti del progetto, Joanne Burke e Valentina Cameranesi, di raccontarci qualcosa in più sulla mostra organizzata negli spazi di Operativa Arte Contemporanea dove, fino al 30 novembre, è stata presentata una collezione di sculture gioiello, in esemplari unici, che richiamavano la tradizione del design italiano moderno e l’iconografia classica.
Come è nato il progetto Ten Boed Poynt in a Wave?
Valentina Cameranesi: Joanne e io abbiamo un rispetto e una stima reciproche per i nostri lavori. Ci siamo incontrate di persona per un progetto fotografico con Camille Vivier. Poco dopo Carlo Pratis ci ha espresso il desiderio di realizzare una mostra con i nostri lavori. L’idea ci ha subito entusiasmate e tutto è iniziato.
Joanne Burke: Valentina mi ha invitata a prendere parte ad un progetto insieme a lei e Camille Vivier alcune estati fa. Sono stati dei giorni speciali quelli passati insieme che credo abbiano creato un legame tale che in qualche modo ci ha spinte a voler lavorare insieme nel futuro. Poco dopo Carlo Pratis ci ha suggerito di realizzare una mostra insieme da Operativa. Da allora sono passati due anni di mail e incontri per conoscerci meglio. Abbiamo iniziato condividendo alcune idee, poi lentamente il nostro scambio si è trasformato in una sorta di empatia in cui pur lavorando separatamente i pezzi del puzzle hanno cominciato in qualche modo a coincidere perfettamente. Tutto è accaduto in maniera molto fluida…
L’idea del titolo è connessa alla realizzazione non è vero?
V.C. Quando abbiamo concepito la mostra ci siamo confrontate sulle nostre piccole ossessioni e aspettative per il progetto, che avrebbe dovuto avere qualcosa di liquido, che avesse a che fare con gli elementi naturali e, ovviamente, con le arti applicate. Il titolo in sé viene dalla passione di Joanne per il periodo elisabettiano e credo che calzi perfettamente il pensiero che ci eravamo fatte entrambe riguardo alla nostra mostra.
J.B. Il titolo della mostra è tratto dalla descrizione di una tecnica impiegata nel XVI secolo in Inghilterra per cucire un fiocco di tessuto che fungeva da supporto ad un pendente prezioso. L’espressione è un riferimento anche alla passione comune che Valentina e io condividiamo per le tecniche artigianali e riassume perfettamente anche il nostro progetto: quello di due mondi fatti di linguaggi differenti che si completano e supportano l’un l’altra nella creazione di un lavoro unico.
Come è stato interagire con gli spazi di Operativa?
V.C.: Io vivo a Milano, perciò la mia interazione si è limitata alla fase di allestimento in cui abbiamo cercato di bilanciare gli elementi e gli spazi.
J.B.: Un piacere. Operativa ci ha lasciate molto libere di esprimerci.
Il vostro linguaggio riporta alla contemporaneità tecniche antiche e non sempre adottate. Dove ha origine questa vostra scelta?
V.C.: Joanne e io lavoriamo in modo molto diverso, lei modella fisicamente le cere per le fusioni, io disegno in scala 1:1 e poi, a seconda del materiale, mi affido ad artigiani specializzati. Credo che più che una scelta sia una sorta di processo naturale legato alla tipologia di lavoro e di estetica.
Per quanto mi riguarda mi piace molto poter ricevere l’apporto manuale di professionisti che si trovano davanti un disegno contemporaneo ma da realizzare con tecniche ”classiche”.
J.B.: Da parte mia posso dire che questa scelta deriva da un approccio autodidatta all’oreficeria, più che ad una vera e propria scelta estetica. Si possono fare grandi cose anche impiegando le tecniche più semplici, se si impiega un po’ di immaginazione. Mi è sempre piaciuto lo spazio ibrido che esiste tra la perfezione del rifinito e ciò che non lo è, e l’antico e il nuovo insieme alle tecniche e i linguaggi che adopero mi permettono di esplorare proprio quello spazio indefinito. La maggior parte delle tecniche artigianali affonda le proprie radici nel rispetto per la materia prima, alla quale si attribuisce una sorta di energia intrinseca, come qualcosa di magico, alla quale sono molto legata.
La vostra arte si intreccia con il design. Cosa cercate di fare emergere da questo dialogo?
V.C.: Credo che si possa parlare di arte applicata: una definizione che per anni ha avuto un significato quasi dispregiativo legato a qualcosa di obsoleto e superfluo ma che in realtà è una pratica ricca di tradizione, esperienza e conoscenza.
J.B.: Valentina e io abbiamo approcci molto differenti allo stesso linguaggio. Amo il lavoro di Valentina perché è molto diverso dal mio e questo fa si che lo trovi davvero affascinante. Mi piacerebbe dimostrare che anche modi differenti di interpretare il design possano convivere e supportarsi. E questo, del resto, è un concetto simbolico per molti altri aspetti della nostra vita. Mettere insieme le nostre differenze come persone e trovare un modo per far funzionare tutto come un unicum.
Forse è un’impressione, ma nel complesso la mostra ha trasmesso una certa carica erotica. È un tipo di atmosfera inerente alla vostra poetica?
V.C.: Credo che entrambe diamo molto peso alla parte tattile di un oggetto, la voglia di toccarlo, la reazione della materia alla forma e al come ”tirar fuori” alcune caratteristiche intrinseche al materiale, sia esso una pietra, un metallo o un qualcosa di più informe come la ceramica.
J.B.: Assolutamente si. Non credo sia qualcosa che ricerchiamo, ma qualcosa di spontaneo nella nostra personalità e nella natura in generale.
Prossimi progetti?
V.C.: Probabilmente a Parigi, dove alcuni dei pezzi esposti da Operativa andranno in mostra insieme ad altri di nuova creazione. Vorremmo che questo dialogo cresca e continui.
J.B.: A Ten Boed Poynt In A Wave sarà a Parigi a Gennaio. Pensiamo infatti che la nostra collaborazione non sia finita e così abbiamo deciso di continuare, presentando auna seconda edizione della mostra a Parigi.