In tempi di guerra

”Non dimenticate di togliere le scarpe per mantenere il pavimento pulito”. Entrare in punta di piedi. Togliersi le scarpe, lasciarle fuori dalla porta come per prepararsi a oltrepassare il confine di un terreno sacro. Una linea sottile fra quello che resta fuori e quello che trovi dentro, fra le ingiustizie e le incomprensioni del mondo e l’accoglienza di un focolare domestico. Un entrare leggero, lento, gentile, come recita il titolo Come in quickly, otherwise I’m afraid of my happiness.

Per accogliere il progetto di Chto Delat (in russo Che fare?) – collettivo nato dall’incontro fra quattro artisti, tre filosofi, un poeta e una coreografa – e l’artista e poeta Babi Badalov, The Gallery Apart si trasforma in un tempio sacro, confermando ancora una volta la propria capacità di svincolarsi dall’essenza dello spazio espositivo come white cube, sapendosi trasformare in linea con i propri artisti. Interessato da sempre a interpretare le voci e le criticità legate al luogo in cui si ritrovano a operare, Chto Delat sceglie per la sua nuova mostra in Italia il tema dell’ospitalità, tanto mai caldo e attuale come in questo momento storico, argomento bollente che ha diviso il Paese in due toccando picchi estremamente bassi.

Come può il principio greco della xenia, così fortemente caratterizzato da un’idea di generosa accoglienza per la quale la diversità è forma di ricchezza, trasformarsi in una serie interminabile di paure, diritti, doveri, regolamentazioni, obblighi e, sopra ogni altro principio, confini strettamente chiusi? Nell’installazione video It didn’t happen to us, yet. Safe Haven (2016) l’esercizio è quello di porsi per un momento al di là della barricata, provando a vivere come se si fosse realmente dei rifugiati. Nella residenza artistica Safe Haven, che accoglie tutti gli artisti costretti ad essere nomadi per svariati motivi e sociali e politici, l’interrogativo è domandarsi cosa accadrebbe laddove fossero tutti chiamati – Chto Delat in primis, gli spettatori allo stesso tempo – a vivere quello stato di coatto allontamento dalla propria realtà, quel non volersi sentire un’isola ma un’entità connessa con il resto del mondo. Non è ancora accaduto, ma è proprio dietro l’angolo, come a testimoniare quanto quello stato di sicurezza tanto agognato e spesso dato per scontato non sia effettivamente reale.

Sicurezza che viene continuamente messa alla prova nell’incontro con l’altro, quell’altro che troppo spesso è anche ”diverso”, simbolo di un pericolo imminente e sintomo di uno stato di attacco dall’esterno che non si vuole neanche ammettere. Ecco che allora i rifugiati intromessisi illegalmente nelle sale di un museo, protagonisti de Museum Songspiel (2011) generano un elemento difficoltà per il Direttore che non sa come giustificarli verso il mondo esterno. Per passare un messaggio quanto più possibile ‘politically correct’ finisce per presentarli al pubblico spaventato come i protagonisti di una performance dedicata ad El Lissitzky. Peccato che una volta scoperto il trucco, anche i più convinti sostenitori della causa finiscono per abbandonarsi in un tacito assenso alla decisione di arrestarli perché considerato giusto secondo la legge.

Se in Museum Songspiel l’elemento del musical è ancora accennato, il film del 2013 Border Musical come suggerito dal titolo lo è a pieno titolo. Sviluppando una riflessione sui matrimoni tra persone di diverse origini che decidono di sposarsi – e di fare figli al di fuori del proprio Paese natio – i protagonisti offrono uno spaccato sulle difficoltà che nascono dalla diversità, accompagnate dal lirismo di una musica popolare tradizionale. Ancora, i lavori di Nikolai Oleinikov e Babi Badalov, realizzati in materiali tessili, ricalcano il tema dell’ospitalità in un confine labile fra ciò che è legale e ciò che non lo è, sapendo costruire all’interno dello spazio espositivo dei momenti intimi e autonomi, che vanno fluendo in quella che sembra essere una familiare casa nella casa. Eppure basterebbero delle piccole istruzioni per entrare in una casa piccola e modesta.”Sarete stanchi morti, crediamo di sì, è ovvio./ Fate sogni d’oro”.

Fino al 23 novembre, The Gallery Apart, via Francesco Negri 43, Roma; Info: www.thegalleryapart.it