Sembra veramente un laboratorio lo studio di Sarah Feuillas, ultimo artista residente nell’atelier Wicar di quest’anno. Niente, o quasi, è ancora definito per la mostra che dovrà fare insieme agli altri 2 residenti all’Espace Le carre di Lille a settembre. Non è neanche un mese che Feuillas è arrivata in città e intanto sperimenta tecniche, materiali e allena l’occhio alla complessità della capitale. Sparsi per lo studio ci sono modellini quasi finiti accanto ad altri collassati, frammenti di sculture, fotografie sparse sui tavoli e progetti attaccati alle pareti. Tutto è in divenire, tutto sembra ancora aperto : il fascino del possibile impregna totalmente i muri dello studio. E non è un caso.
Come sarà ? Come sarebbe potuto essere ? Non sono solo le domande che i lavori ancora incompleti dell’artista strappano dalla testa ma sono anche, e soprattutto, le stesse domande che si pone l’artista di fronte alle rovine, il suo ambito di ricerca. «Sono affascinata – dice – da Piranesi e dalla sua capacità di disegnare quello che gli stava davanti nelle Vedute e contemporaneamente di progettare delle prigioni immaginarie. Credo – continua – che questi due movimenti siano in realtà parte di uno stesso modo di vedere il mondo, il mondo delle rovine. Guardando quello che resta infatti viene spontaneo immaginare come era, come sarebbe potuto essere o ancora meglio come potrebbe essere adesso». Affascinata da questa multipla temporalità Feuillas scatta fotografie («mi piace molto come mezzo, non l’ho mai studiato ma mi piace la libertà che lo strumento mi regala») e spesso sovra-impressiona sulla stessa immagine mischiando forme, mischiando tempi. Sono immagini in bianco e nero, altre volte a colori, che raccolgono le ceneri di una storia passata, tracce indelebili di quello che eravamo ma mai complete.
Non poteva allora non rimanere affascinata dal Barocco Feuillas e del Barocco della sua tecnica per eccellenza la scagliola. Pareti di stucco che sembrano marmo pregiato adornano chiese romane, un amore tutto seicentesco per la finzione che l’artista prende e declina nella sua poetica, «mi interessa – conferma – questo modo di fingere la realtà, di ingannarla, lo trovo molto vicino al mio concetto di rovine che possono essere immaginate totalmente diverse da come erano state pensate, che possono essere ingannate o possono ingannare chi le guarda». Lasciando colonne scanalate realizzate con calchi di corrugati, abbandonando finti pavimenti di marmo, passando attraverso strutture monolitiche realizzate in polistirolo, e sulle scale, fino alla strada, si ha l’impressione di aver attraversato un buco temporale dove forme ed epoche passate si intrecciano fra loro. Poi passato il portone, messo piede sul primo sanpietrino, tutto torna normale : già viviamo così, questa città è stata costruita così.