Tanto vale metterlo subito in chiaro. Per chi se lo fosse chiesto, Freddie Mercury non ha nulla a che fare con la mostra da poco inaugurata alla Nir Altman Galerie di Monaco. I shot Mercury to make this exhibition è un progetto curatoriale che mette al centro la questione dell’interpretazione: C’è un modo corretto e univoco per leggere un lavoro? Siamo in grado di decifrare un’opera sulla base di una grammatica condivisa? La curatrice, Claudia Contu, ha riunito i lavori di otto artisti, Simona Andrioletti, Fabio Dartizio, Mariia Fedorova, Susi Gelb, Diego Miguel Mirabella, Catalin Pislaru, Alice Ronchi, Stefania Ruggiero che, in modi diversi, fanno saltare i nostri riferimenti educativi, quell’insieme di regole a cui ci hanno abituato ad attenerci per leggere un’opera. L’esposizione nasce infatti da una riflessione filosofico-linguistica ispirata in parte da I limiti dell’Interpretazione di Umberto Eco e in parte sfiorata dalle Profanazioni di Giorgio Agamben. «Ho iniziato a sviluppare questo progetto dopo la lettura di Eco – racconta Claudia Contu, curatrice della mostra, che è volata a Monaco da Londra, dove sta svolgendo un master al Royal College of Art – quando ci approcciamo a un testo lo leggiamo sulla base di come ci hanno insegnato a tradurre delle frasi. Eco una volta ha detto che una traduzione è una sorta di tradimento». Quando si traduce, d’altronde, non si compie un semplice atto di trasposizione linguistica ma di negoziazione di significato. In poche parole si interpreta. Un discorso che Eco affronta già in Opera Aperta negli anni Sessanta ma che nel testo del ’90 il semiologo sviluppa concentrandosi sulla triade che si viene a creare tra le intenzioni dell’autore, del lettore e dell’opera stessa: ‘’Eco – scrive la curatrice nel saggio critico della mostra – ci ricorda che il linguaggio dice sempre qualcosa di più del suo significato letterale inaccessibile e che, fermandoci a un primo stadio di interpretazione, uccidiamo Mercurio, la cui attività principale è quella di inviare messaggi agli altri Dei’’.
Ecco, da qui non è difficile comprendere l’assassinio citato nel titolo dell’esposizione. Ma, per farlo, è forse necessario prima immaginare la mostra come una superficie testuale, in cui il curatore ricopre il ruolo di lettore privilegiato in grado di interpretare a suo piacimento i lavori esposti. «Come curatrice – spiega Contu – mi viene chiesto di dare un’interpretazione alle opere. In parte, quindi, posso dire di aver ucciso Mercurio per realizzare questa mostra perché ho usato i miei strumenti per giudicare alcune opere, in virtù della mia posizione gerarchica, mettendole in mostra per sostenere i miei interessi curatoriali. È quello che fa un curatore ma a volte succede che ci si dimentica che dietro c’è un artista». Pertanto, per evitare di fraintendere le intenzioni degli autori, la curatrice ha deciso di chiedere agli artisti di elaborare in forma scritta una serie di pensieri sulle proprie opere, da esporre, anch’essi, in mostra. A sua volta, la curatrice ha steso una serie di riflessioni personali sui lavori: «Potremmo definirlo una sorta di cadavre exquis con almeno due punti di vista: quello dell’artista e quello di chi ha selezionato le opere, io, che ho scelto di leggerle in un determinato modo. In questo modo volevo far sì che si comprendesse che ci sono mille modi per vedere un’opera d’arte e contrastare idea della fissità dei codici che usiamo per leggere». Un’affermazione che potrebbe essere valida per gran parte dell’arte contemporanea ma che oggi è rafforzata da un contesto sempre più mutevole e indefinito: «Bisogna essere costantemente aperti a nuovi stimoli, ibridarsi. C’è sempre un’indecisione tra portarsi dietro una certa identità, un bagaglio di informazioni, e vivere in un mondo globalizzato. Tutti gli artisti in mostra hanno dimostrato un interesse verso questo compromesso e in modo spesso parodico che mettono in discussione le classificazioni di conoscenza e di linguaggio».
Ruggiero e Ronchi, ad esempio, giocano con forme e immagini piatte mostrandoci, con un effetto straniante, un nuovo modo di guardare le cose. Pislaru indaga il mezzo pittorico trasformandolo in qualcosa di inaspettato, mentre in Gelb si ibridano, in un processo quasi alchemico, mondo naturale e tecnologico. Mirabella, invece, attraverso la tecnica marocchina di mosaico porta la scultura su un piano bidimensionale arricchendola di frasi sussurrate. Le sculture di Simona Andrioletti nascono da un lavoro di collaborazione con terzi, necessitano della loro presenza per esistere. Fabio Dartizio e Maria Fedorova, infine, hanno realizzato un video a partire da esperienze condivise prima a Tokyo e poi alla Triennale di Folkestone, aprendosi a sistemi di cultura diversi e mettendo in questione la loro identità.
Proprio a causa della difficoltà di attribuire ai lavori una lettura univoca, sono esposte in mostra anche le suggestioni scritte che completano il loro significato.
Potremmo dire che Mercurio sia stato ucciso ma che in qualche modo sia stata ristabilita una giustizia interpretativa, e forse il messaggio è stato recepito lo stesso. Come in una scena del crimine che si rispetti, si aggiunge una terza versione dei fatti, quella del pubblico, che potrebbe coincidere o fornire nuovi e diversi spunti. In pratica, il concept espositivo non si ferma alla prima fase di scambio linguistico tra il curatore e gli artisti ma continua nel corso della durata della mostra e oltre. E neanche la morte di Mercurio può fermare il processo. “The show must go on”, direbbe Mercury, se solo stessimo parlando di lui.
Fino al 17 febbraio, info: niraltman.com