Julius von Bismarck

Non avete mai sfogliato il nostro cartaceo? Per farvi recuperare, vi proponiamo un pezzo dal numero 109 

Sulla vetta di una montagna, agitando la sua frusta, Julius von Bismarck non sembra curarsi di aver buttato giù dal dirupo il povero viandante di Caspar David Friedrich, e con lui ogni strascico romantico suscitato dalla contemplazione dell’indomabile bellezza di un paesaggio naturale. Se ne sta lì, perfettamente consapevole che il sublime oggi non risiede più nel brivido provocato dalla natura stessa, ma in quell’ebrezza illusoria di onnipotenza ostentata dall’antropocentrismo contemporaneo. Una convinzione dell’uomo di avere il potere di controllare ogni fenomeno terrestre, dalla natura alla tecnologia, che ha invece spalancato le porte all’era dell’Antropocene, dove l’umanità, responsabile di ogni catastrofe, lega la propria esistenza a quegli stessi fenomeni che credeva di poter dominare. Ogni gesto di Bismarck è estremo, violento, diretto a portare al grado massimo di tensione un sistema in equilibrio, ad alterarlo, per testarne scientificamente la reazione, per vedere a che punto ci si possa scontrare con i limiti umani. E, una volta raggiunto il limite, lì interviene la macchina, diventando propaggine naturale, sostituto legittimamente programmato piuttosto che usurpatore.

Punishment è una metafora per rappresentare il comportamento riprovevole dell’uomo nei confronti della natura. Nonostante questo, c’è qualcosa di poetico in quest’atto.
«Mi sono ispirato alla flagellazione da parte di Serse dell’Ellesponto. Un gesto così significativo da finire nelle pagine di storia, nonostante non ci siano stati feriti oltre alle onde. Ho cercato di capire quale significato possa assumere oggi un’azione del genere».

Della natura sei interessato più agli aspetti che rivelano la presenza umana, o che sono il risultato di un’alterazione artificiale.
«Immaginare oggi una natura senza uomo è impossibile e non avrebbe neanche senso, siamo parte di essa. Prendiamo il piccione, è un ottimo esempio di coesistenza tra sistema ambientale e umano: senza di noi non esisterebbe e non potrebbe neanche sopravvivere in un ecosistema diverso dalle nostre città. In Some Pigeons Are More Equal Than Others ho provato a ridare dignità a questo animale, abitualmente concepito come un parassita. Il risultato è che, cambiando il suo colore, si modifica anche la nostra percezione dell’intera specie. Con la serie Kunst, invece, sono stato in diversi paesi usando la natura come una tela, disegnandoci sopra. Mostrando in questo modo che l’idea che abbiamo di essa è prevalentemente estetica, basta un po’ di pittura per alterarla. Ma il fatto di poterla controllare o l’intento romantico di salvarla è solo un cliché».

La ricerca di Olafur Eliasson parte dalla convinzione che sia sempre più necessario un impegno critico verso i temi di carattere globale. I tuoi lavori sembrano esprimere la stessa sensibilità. Quanto ti ha influenzato il suo lavoro?
«Ho studiato nell’istituto di Eliasson per esperimenti speciali collocato proprio sopra al suo studio, è impossibile negare che ciò mi abbia influenzato. Anzi, è stata la ragione per la quale ho smesso di studiare comunicazione visiva e ho deciso invece di diventare un artista. Ma questo è stato tanto tempo fa. Io e Olafur apparteniamo a generazioni diverse, il pianeta di cui parla è un altro rispetto a quello in cui vivo, nonostante possa sembrare davvero molto simile».

In opere come Der Schrei o Egocentryc System, si reitera all’infinito una rotazione senza senso, un movimento meccanico, perpetuo e precario al tempo stesso. Cos’è quello che chiami sistema egocentrico?
«Osservare un oggetto che ruota ha un che di ipnotico, non è rilevante se a girare sono io o un altro: è l’atto in sé a far riflettere. Egocentryc system è stato il mio primo esperimento all’interno di una ricerca sul movimento. È come se il piccolo pianeta in cui abiti, il tuo sistema di riferimento, ti permettesse, attimo dopo attimo, di scollegarti fisicamente dalla terra. Ogni movimento è confuso, il corpo cerca di adattarsi a un sistema fisico di forze non lineari. Ogni elemento, incluso te stesso, orbita attorno al centro della piattaforma. Se muovi la tua mano passi da un’orbita a un’altra con una differente energia. Ad Art Basel Unlimited ho passato un’intera settimana su quel “paraboloide” di cemento. È folle, all’inizio avverti una sensazione di malessere ma quando il corpo si abitua puoi compiere ogni movimento normalmente. E dopo un po’ il mondo gira intorno a te e tu diventi il centro di tutto».

In molti dei tuoi lavori però sei soltanto il programmatore, mentre è la macchina il vero attore della performance.
«Penso che la macchina, con il suo programma, sia solo un’estensione della volontà umana. Ma è questo il bello, per programmare devi buttar giù un chiaro insieme di regole. Non puoi essere approssimativo, o è sì o è no. Le macchine non mi spaventano, ho solo paura degli umani che programmano le macchine».

La tecnologia può essere anche strumento di sovversione del potere. Con Image Fulgurator hai creato un sistema per interferire tra la macchina fotografica e l’oggetto da fotografare. Com’è avere il potere di manipolare la realtà in diretta?
«È una bella sensazione, soprattutto perché quando lavoravo a questo progetto lo facevo sotto copertura, come una talpa. La gente pensava fossi un fotografo, un turista, o un addetto stampa, rivolto come tutti gli altri verso lo stesso oggetto di interesse. Invece mi stavo concentrando su di loro, sul loro modo di costruire la realtà».

Qualche anno fa hai affermato l’impossibilità della mente umana di comprendere più di tre dimensioni. Di recente, alla galleria Alexander Levy hai messo in scena Approximatively three dimentions. In cosa consiste questa approssimazione?
«Molte attività che svolgo sono concentrate sul bidimensionale, foto, video o qualunque opera su schermo o su supporto cartaceo. Quando ero in residenza al Nuclear reaserch facilty del CERN di Ginevra, si parlava di molte altre dimensioni. Viviamo in un mondo che è approssimativamente in tre dimensioni, possono essere allo stesso tempo più o meno di tre. In questo momento sono seduto in un aereo per il Messico, dove ho intenzione di produrre un lavoro che faccia perdere agli oggetti la loro tridimensionalità. Userò una pressa potente per rendere piatti alberi e piante. Sarà un progetto approssimativamente bidimensionale».

Info: juliusvonbismarck.com

BIO
1983
Nasce a Breisach am Rhein, Germania
2009
Inizia a frequentare l’Institut für Raumexperimente, diretto da Olafur Eliasson, all’Università delle arti di Berlino
2011
Vince il Prix Ars Electronica Collide@Cern ed è in residenza al Cern, Svizzera
2016
Presenta la mostra Approximately Three Dimensions alla galleria alexander levy, Berlino
2017
Due mostre in programma, una alla galleria Sies & Höke di Düsseldorf, un’altra alla Marlborough Chelsea, New York