Parla Hans Op de Beeck

Narrare l’invisibile, trasformare la banalità del quotidiano in qualcosa di eroico e straordinario, sembrano queste le sfide del lavoro di Hans Op de Beeck, artista di origine belga, la cui cifra stilistica è inclassificabile nell’ampia declinazione del suo linguaggio estetico e creativo. Una grande retrospettiva a lui dedicata sta per inaugurare nel museo tedesco d’arte contemporanea di Wolfsburg, un viaggio surreale che porta lo spettatore a indagare i differenti aspetti della produzione di Op de Beeck: installazioni, sculture, video, progetti site specific analizzano le tematiche care all’autore. L’esistenza umana è la chiave di lettura: un’umanità a volte goffa viene magistralmente rappresentata, dove non vi è la presunzione sociologica di definire il reale, ma vi è l’esigenza di creare un mondo che vada oltre la superficie e che in qualche modo intacchi il pensiero dello spettatore e ponga delle domande di matrice filosofica. Abbiamo realizzato una lunga intervista ripercorrendo le tappe della carriera di Op de Beeck che con il suo progetto Out of the Ordinary sfida se stesso nella costruzione di un luogo suggestivo che consta una superficie di 2.200 mq, un’esperienza unica nel suo genere che sfiora e avvicina eterogenei elementi multidisciplinari.

Artista visivo, drammaturgo, compositore, regista d’opera e teatrale, il tuo linguaggio artistico comprende diversi materiali e differenti mezzi di espressione, qual è l’attitudine che preferisci?
«Alla scuola d’arte di Bruxelles ho studiato pittura e successivamente, durante il mio master, mi sono specializzato in quello che è definito Experimental Studio ovvero un orientamento multidisciplinare in cui eravamo liberi di scegliere qualsiasi mezzo. Ciò è stato liberatorio per me. Ho capito che il contenuto di quello che volevo comunicare allo spettatore poteva essere il mio punto di partenza, piuttosto che un mezzo. Organicamente e spontaneamente ho poi iniziato a esplorare installazioni, scultura, video e fotografia; quei media sono arrivati in maniera molto naturale. Oggi, come artista, non ho alcun supporto particolare che preferisco, tutti hanno le loro possibilità e i loro vantaggi e svantaggi da esplorare.
Un buon pezzo d’arte ti fa dimenticare il mezzo in cui esso si articola. Un bel dipinto non ti fa pensare, in primo luogo, alla tecnica pittorica ma ti trasporta immediatamente in un’esperienza. Uno spettacolo teatrale ti fa dimenticare di essere seduto su una sedia di velluto rosso, un romanzo intrigante ti fa scordare che sei in possesso di un libro tra le mani. Il mio lavoro, in questo senso, non è autoreferenziale, ma piuttosto è un’esperienza che parla della vita.
In generale cerco di evocare un mondo artificiale, una versione condensata della realtà che parla di noi come esseri umani e che spesso mette in scena goffamente la nostra vita, i nostri rapporti con gli altri, il nostro ambiente e la nostra mortalità. Credo fermamente nell’idea di catarsi: la rappresentazione del tragico, dei lati oscuri della vita e della sofferenza, sono mezzi consolatori e di guarigione per lo spettatore, dal momento che proprio lo spettatore può identificarsi con questi aspetti e capire che non è l’unico che deve superare ostacoli e difficoltà . Al di là del supporto che utilizzo, spero che le mie opere siano come una mano consolatoria sulla spalla, un abbraccio caldo e un’oasi mentale per la pace e la tranquillità. Sono estremamente felice quando gli spettatori mi dicono che le mie opere, la mia musica, le mie installazioni o la mia pittura li hanno commossi o consolati».

John Keats affermò che la bellezza è verità, donando un profondo senso etico a questo concetto. Che cosa è la bellezza secondo il tuo punto di vista?
«La bellezza è un mezzo, un mediatore, uno strumento per stimolare la generosità delle persone. Ma la bellezza, a mio avviso, non ha a che fare con l’estetica. Considero la bellezza come qualcosa che possa muovere l’animo delle persone. Potrebbe essere il volto rugoso di una vecchia donna, un gesto significativo di sostegno, una scatola di scarpe con le fotografie di un mercato delle pulci che testimonia la vita di una persona sconosciuta. Anche una zona industriale degradata potrebbe diventare un luogo magico di notte.

”Bisogna smantellare l’amore per diventare capaci di amare. Bisogna smantellare se stessi per diventare soli e incontrare il vero doppio all’altra estremità della linea. Un passeggero clandestino in un viaggio immobile. Per diventare come tutti gli altri, bisogna saper divenire nessuno per non essere più nessuno. Per dipingere se stessi grigio su grigio”. Questa frase scritta dal grande filosofo francese Gilles Deleuze esprime un concetto simile al tuo lavoro, soprattutto alle tue sculture grigie e il processo sembra sia il medesimo: smantellare la realtà per darci qualcos’altro che non è più la vita di tutti i giorni ma che è la natura della tua personale poesia visiva.
«Credo che Deleuze parli di una distanza riflessiva, di un distaccarsi dalla banalità e dall’aneddotica e di essere ricettivo nel dissolversi in un’essenza sottostante. Egli giustamente parla di smantellamento del reale. Il mio lavoro consiste infatti nel cercare di mettere in scena e di rivelare quello che c’è sotto lo strato superficiale, ma non credo di poter dare una risposta. Io non ho alcuna risposta da offrire, ma creo uno spazio in cui vi è un senso di atemporalità. Le mie opere non sono mai simulazioni di realtà. Scolpisco ogni oggetto con le mani e riducendo l’uso di colori e di texture, le mie opere divengono innegabilmente riduzioni e interpretazioni di quello che sappiamo della vita quotidiana; sono immagini residue e spettrali che risuonano in qualcosa di più ampio rispetto a un particolare dell’esistenza, ricollegandosi così all’universale. I mondi che creo non sono mondi di fantasia, ma luoghi in cui cerco di presentare gli strati sottostanti radicati in ognuno di noi. Le mie opere non raffigurano luoghi reali, ma sono costruiti dalla memoria e dall’immaginazione. In questo senso non sono simulazioni o ricostruzioni, ma evocazioni e apparenze. Utilizzo un linguaggio visivo con cui le persone possono facilmente identificare se stessi, al fine di rendere le immagini accessibili e, partendo da lì, ottimizzare l’equilibrio tra forma e contenuto con diversi riferimenti. I bambini e i non addetti ai lavori possono facilmente rapportarsi alle mie opere, lo spettatore più esperto, invece, può scoprire ulteriori strati di approfondimento».

Out of the Ordinary è il titolo della tua prossima mostra ospitata al Kunstmuseum di Wolfsburg dall’8 aprile. E accoglie l’installazione site specific più grande che tu abbia mai realizzato. Quali sono i contenuti di questo progetto?
«Il titolo inglese Out of the Ordinary significa letteralmente straordinario, ma potrebbe anche essere inteso come ”preso o tirato fuori del banale”. In generale non parto da un contenuto spettacolare, ma dagli elementi quotidiani da cui isolo alcuni aspetti. Allora provo a mettere in evidenza lo straordinario della quotidianità, di piegare lo stato della banalità in qualcosa di speciale».
In Out of the Ordinary lo spettatore entra nel museo attraversando la Collector House; una stanza a grandezza naturale che rievoca la residenza di un collezionista un po’ pomposo, ogni cosa è completamente scolpita in grigio, bianco e nero. Quando si arriva sulla terrazza del palazzo in stile neoclassico lo spettatore può ammirare un paesaggio industriale, illuminato da lampioni colorati. Le piccole strade non sono eseguite in modo iperrealistico, ma in gran parte interpretate in bianco e nero. Una volta scese le scale del terrazzo neoclassico, il visitatore si ritrova all’interno di piccoli vicoli bui. Nel paesaggio scoprirà contenitori per rifiuti, fuochi da campo in barili di petrolio, una fontana e posti a sedere. Ogni casa è accessibile e all’interno di ognuna di essa saranno allestite grandi installazioni scultoree e opere video.
Tra le installazioni di grandi dimensioni c’è, ad esempio, The Amusement Park che evoca un luogo notturno abbandonato. The Settlement, invece, è un immaginario villaggio di palafitte sull’acqua, la mostra è dunque un ingegnoso gioco tra la percezione del dentro e del fuori.Una delle case ospita il mio Gesamtkunstwerk ovvero Il Mare della tranquillità un museo fittizio che narra la storia di una nave immaginaria. Oltre a una serie di altre installazioni scultoree, ci sono anche opere videografiche incluse nella mostra: un film d’animazione sulla base di acquerelli, un video girato su scala ridotta, e una pellicola cinematografica realizzata in studio con attori e decori progettati in modo digitale».

I tuoi lavori sono sempre circondati da un ambiente tranquillo e calmo, come se fossero cristallizzati in una sorta di universo pacifico, non esprimono rabbia o paura, vivono all’interno di un ambiente placido e silenzioso, perché cerchi questo tipo di sentimenti nel tuo linguaggio estetico?
«Come fruitore d’arte spero sempre di trovare calma e tranquillità in un’opera, un luogo che mi inviti per un momento al silenzio e alla consolazione. Quindi cerco di mettere in scena questo anche nel mio lavoro. Io non sono appassionato di contenuti spettacolari che includono violenza o raffigurazioni scioccanti. Il nostro mondo è già sovraccarico di informazioni chiassose e di frenesia. Nei miei lavori teatrali, nelle mie composizioni musicali preferisco sempre trasmettere calma. Mettere in scena una realtà pacifica comprende comunque una riflessione profonda e stratificata sulla vita ed è questo il mio grande sforzo intellettuale».

Quali sono le radici della tua ispirazione? Che cosa ha più influenzato il tuo linguaggio artistico?
«Sai, mi viene spesso chiesto quali siano i miei esempi nell’arte contemporanea. Anche se ammiro l’opera di molti artisti che lavorano con una grande varietà di media, non me ne sono mai servito come punto di partenza o come esempio. In questo periodo mi piace molto l’opera tragicomica dei fratelli Coen, ammiro i racconti di Raymond Carver e mi affascina molto il misterioso e colorato mondo del pittore Peter Doig. Ma non sono i miei ‘esempi’. Penso che possano solo ispirarmi ad essere il migliore Hans Op de Beeck possibile.
L’ispirazione per il mio lavoro viene, in poche parole, dalla vita di ogni giorno: il modo in cui il mondo si rivela a me, che cosa motiva le persone e ciò che mi tocca. Cerco di parlare principalmente delle difficoltà della vita, della sua assurdità e della bellezza. Ammetto che questo suona un po’ ampio e vago, ma, in generale, credo che il soggetto di un’opera d’arte può essere sia complesso che sorprendentemente semplice. Un’opera non ha bisogno di soggetti. Il soggetto da solo non è l’opera, non è la forma. È un’ingegnosa oscillazione tra la tecnica e il concetto che consente a un’opera di nascere. Il contenuto iniziale può facilmente non rappresentare nulla. Il nulla, come ad esempio nella scrittura di Samuel Beckett, può ancora, in quanto tale, diventare profondo, essere il contenuto essenziale.

Ciò di cui questo mondo ha bisogno è la verità non la consolazione, ha scritto Jean-Luc Nancy. Spesso le tue opere parlano di consolazione, una scultura in particolare, intitolata Gesture, una mano che offre alcuni frutti, e ho percepito un senso di comunione (ricorda anche il gesto di comunione cattolica). Che tipo di sensazioni sono collegate al tuo vocabolario poetico?
«Offrire consolazione attraverso la mia arte è estremamente importante per me. Considero fare arte una forma di auto-guarigione e attraverso i risultati di tale processo, stabilire un rapporto con lo spettatore. Capisco il punto di vista di Nancy quando si riferisce al paradigma socio-politico in cui l’azione e la conoscenza della verità potrebbero essere più utili all’uomo. La consolazione come obiettivo potrebbe implicare un atteggiamento passivo, di mancanza di impegno, ma l’arte, a mio avviso, non è il veicolo ideale per ciò di cui il mondo ha bisogno, non credo possa offrire soluzioni socio-politiche concrete o dichiarazioni veritiere.
E poi: che cosa è la verità? Quale verità? Questo è un concetto molto problematico. L’arte al suo meglio può evocare sentimenti autentici e di conforto, ma non può rivelare la verità. L’arte invita alla discussione, non può offrire risposte. Se l’obiettivo dell’arte fosse mostrare la verità, allora mi viene in mente solo la propaganda, la dialettica, l’arte dogmatica che è, dal mio punto di vista, necessariamente lontano da quello che si potrebbe considerare vero.
A partire dalle banalità apparenti penso che sia possibile risvegliare un contenuto più ampio in dialogo con lo spettatore, anche in termini di temi urgenti e contemporanei. Nel mio lavoro questi tendono ad essere presenti tra le righe. Un artista che colloca l’attualità, anche in modo esplicito, in primo piano nel suo lavoro, ad esempio dipingendo un politico come Donald Trump, può diventare rapidamente obsoleto, e lo trasforma in un documento storico, per cui si appiattisce il messaggio e perde la sua urgenza. Quando nel 2001 crollarono le Torri Gemelle, il tema fu adottato visivamente da molti artisti. Le opere che hanno realizzato, però, non ebbero il forte impatto delle immagini televisive o delle fotografie apparse sui giornali, semplicemente non potevano competere. Alcuni temi di attualità sono forse troppo specifici e travolgenti per essere racchiusi in un lavoro. L’opera dovrebbe riflettere la profondità, la complessità sottostante e una raffinatezza che risuonano sempre forti autonomamente. Questo è il motivo per cui un oggetto apparentemente insignificante o la modalità di un approccio è spesso un veicolo migliore per affrontare temi attuali e universali nell’arte».

Parlando del tuo futuro, qual è la tua prossima sfida creativa?
«A parte i preparativi per un grande progetto in Austria che aprirà al pubblico il prossimo giugno, ho iniziato a lavorare su una nuova produzione teatrale e su un nuovo film di animazione. Ovviamente continua anche la creazione con il mio team per fiere e gallerie. Per l’Opera di Stoccarda dirigerò e progetterò il ‘Bluebeard’s Castle’ di Bartok. Prima dell’estate vorrei anche lavorare su una serie di dipinti cromatici su tela, che è una produzione completamente inedita per me.
A lungo termine, spero di fare un film per il quale ho iniziato a scrivere una sceneggiatura. È il mio sogno poter combinare tutti i media che amo esplorare in un unico progetto: scrittura, regia, scenografia, costumi, musica. In futuro vorrei prendere un anno sabbatico per concentrarmi unicamente sulla produzione cinematografica con tutto il mio team. Mi piacerebbe creare tutti i set per il film in una grande sala industriale. Per ora, mi concentro sull’installazione della mia mostra a Wolfsburg e sulla realizzazione del mio catalogo monografico».

Fino al 3 settembre 2017, Kunstmuseum Wolfsburg, Hollerplatz 1, 38440 Wolfsburg, Germania; Info: www.kunstmuseum-wolfsburg.de