Intervista con Vincenzo Simone

Roma

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

Una dedizione assoluta alla pittura e al suo linguaggio senza tempo è forse la spinta più profonda che anima la ricerca artistica di Vincenzo Simone. Una ricerca in equilibrio tra l’amore per la storia dell’arte e la costante necessità di testare la validità del linguaggio pittorico, tanto nello spazio tradizionale della tela quanto e soprattutto nel campo espanso dell’architettura.

Come nasce il tuo amore per la pittura?
«In modo molto semplice. Da piccolo ero un nullafacente, non avevo voglia di studiare. Un giorno mi venne chiesto cosa volessi fare nella vita e risposi che avrei voluto dipingere. Il giorno dopo mio nonno mi regalò una tela bianca, enorme, con dei colori a olio e da lì è iniziata la mia avventura. In realtà guardavo spesso i libri d’arte che c'erano a casa e mi piaceva l’idea di poter diventare anch’io un pittore».

Quali erano i pittori a cui guardavi da ragazzo?
«Vincent Van Gogh, Egon Schiele e Gustav Klimt».

E quelli a cui guardi oggi?
«Ho un amore spassionato per l'arte antica ma tendo a non guardare tantissimo il contemporaneo. Dentro il mio bagaglio ovviamente ci sono Francis Bacon, Jan Vermeer, Pontormo. Ti direi Gerhard Richter, Mark Rothko e ancora Pier Paolo Calzolari, Thea Djordjadze, una scultrice georgiana, Andro Wekua. Quando lavoro preferisco non avere nessuna influenza visiva, non uso immagini, non uso niente, è tutto frutto di idee che nascono nel momento in cui il quadro viene fatto».

Quindi non dipingi mai dal vero?
«No, mai, è una cosa che mi dà molto fastidio. Tutti abbiamo un bagaglio di immagini ma non penso sia necessario avere unì’immagine davanti per poter dipingere. Ho sempre cercato di proteggere il lavoro da possibili influenze prestampate. Non disegno mai, fin dall'inizio ho avuto questa idea di far nascere tutto da zero».

Spesso la tua pittura dialoga con l’architettura, sconfina nella scultura e nell’installazione.
«A casa dipingo, ma quando mi devo confrontare con una mostra trovo il quadro sempre limitante. Non penso che sia debole ma è come se mancasse di qualcosa. L’intervento sul battiscopa, per esempio, è un componente che ritorna spesso nei miei lavori e in maniera diversa, è diventato la mia firma. L’idea dello spazio bianco, di una galleria dove tutto galleggia mi da un po’ fastidio, ho bisogno di un sopra e un sotto, un alto e un basso. Nelle gallerie il battiscopa non c’è perché deve essere tutto neutro: dipingerlo mi serve a dare questa distinzione, non amo le cose che galleggiano. Mi interessa delimitare lo spazio, in modo che tutto venga abbracciato da una continuità di linee o di colore. Non so se chiamarlo interesse scultoreo, la pittura che esce fuori dal quadro risponde sempre a una necessità e al fatto di sentirmi limitato».

Qual è il problema, ovvero la questione, che si pone oggi la pittura?
«Si discute molto sul voler essere innovativi ma in realtà penso che per un pittore, la questione sia un po’ diversa. Oggi non si tratta tanto di voler rinnovare o aggiungere qualcosa, credo che sia stato fatto tutto. Se apro un catalogo di Duchamp o di Picasso mi viene voglia di non fare più niente».

Non parlo necessariamente d’innovazione del linguaggio ma della ragione profonda per cui fai pittura.
«Mi sono posto il problema del perché fare un lavoro di cui potremmo non aver bisogno. Per me è una questione personale. Un pittore fa pittura perché ha la necessità di farlo, dicendolo nel modo più banale. Significa svegliarsi la mattina e riprendere esattamente dallo stesso punto in cui si era rimasti. Quando inizi a dipingere la cosa interessante è che non c’è mai una risposta. Tutti i pittori cercano di trovarla e alla fine non so se davvero ci sia. Questa continua perfezione, questo voler trovare delle risposte all’interno di una pennellata, delle risposte all’interno di un’immagine. Morandi ha fatto tutta la sua vita bottiglie senza preoccuparsi di ciò che era giusto o sbagliato. È vero che tutto è spiegabile ma la pittura è preistorica, è un sentimento che va al di là di tutto. Ogni volta che fai un quadro ti ritrovi di fronte a dei quesiti che sono sempre diversi. La verità è che quando pensi di essere arrivato in un punto ben preciso tutto crolla perché il quadro seguente cambia ogni cosa. È cercare delle risposte che sono più grandi di noi».

La questione del paesaggio sembra ritornare più volte nella tua ricerca.
«Mi sento molto legato ai miei paesaggi. Ogni volta questo tema torna in modo diverso, non è mai la stessa cosa. Ciò che m’interessa è la dimensione dello sguardo, del vicino-lontano, mi piace sempre ricordare dove siamo noi e dove è il mondo delle idee. Poi c’è un amore estremo, mi emoziono sempre quando c’è un quadro che raffigura un paesaggio. È l’unico modo che ho per rappresentare il pensiero in immagini, è un pretesto che utilizzo per parlare di ciò che sono i pensieri. A volte questi paesaggi sono abbastanza fumosi e questa è l’immagine che ho in testa, nel mondo dei pensieri. Il vicino è ciò che noi calpestiamo nella nostra realtà, questo presente fatto di cose che possiamo toccare. Il lontano, il mondo delle idee, invece, è altrove».

BIOGRAFIA

1980
Nasce il 13 novembre a Seraing (BE)
2008 
Si diploma in pittura all’Accademia di belle arti di Bologna.
2011 
È tra i fondatori di Interno4Bologna, spazio no profit per l’arte contemporanea
2012 
Arriva la prima personale alla Galleria dell’immagine a Rimini
2015 
È tra gli artisti selezionati per la residenza Cars Omegna a cura di Lorenza Boisi, espone Wonder a Operativa Arte Contemporanea, Roma.

Info: vincenzo-simone.blogspot.com/

PROGETTI
Con Wonder (Sette piscine), progetto ideato per gli spazi della galleria romana Operativa Arte Contemporanea, Vincenzo Simone presenta al pubblico una serie di piscine in plastica, gonfiabili e dai colori intensi che, una volta dipinte, si trasformano in un omaggio alla pittura antica. Il progetto nasce dall’idea di inscrivere una serie di paesaggi all’interno di un supporto ludico e pop qual è quello di una piscina gonfiabile. Non appena la prima piscina viene affissa al muro: «si palesa la somiglianza con uno specchio fiammingo – spiega l’artista – ecco allora che la sacralità della pittura emerge e la questione diventa seria». Ogni piscina si trasforma così in un diverso omaggio a uno specifico aspetto della tradizione pittorica, dall’affresco alle pale d’altare annerite nel tempo dal fumo delle candele.