La via della mosca e la via della formica. Per una [fanta]antropologia dello scarabocchio

Roma

Sebbene partecipino alla dimensione del rito, come molti altri oggetti ”artistici” dei cosiddetti popoli primitivi, sono pochi gli autori che oggi rifiuterebbero di annoverare gli scarabocchi agonistici di Acta e Reacta tra quelle produzioni dell’Uomo che, a qualsiasi latitudine, a ragione e senza pregiudizio, chiamiamo Arte. (Leggi la news sulla mostra di Veronica Montanino a Formello)

Sin dalla loro scoperta, le battaglie pittoriche di questi due popoli, rivali da sempre – come attestano le rispettive narrazioni mitiche -, hanno fatto discutere gli specialisti, che in maniera quasi unanime hanno finito per accogliere la tesi che questi incontri ludico-cerimoniali altro non siano che la forma ”ritualizzata” di scontri veri e propri avvenuti in epoche passate. La ritualizzazione, in forma di gioco, sarebbe nata per arginare il dispendio di vite umane nelle file di ciascuna delle etnie in guerra. Una guerra condotta, ricordiamolo, in un territorio angusto, nel quale è oggettivamente difficile non incrociare i cammini e, senza una tregua sancita, le lance. Più controversa resta l’ipotesi che alla lotta tra Acta e Reacta fosse associata, in antico, la pratica dell’antropofagia (religiosa o alimentare, come qualcuno ha anche ipotizzato), tesi che riteniamo insufficientemente fondata visto che si basa solo su testimonianze poco verificate circa l’esistenza di una ”via del ragno” che, in luogo dell’attuale ”via della formica”, si sarebbe originariamente contrapposta alla ”via della mosca”. L’ipotesi troverebbe ragione nel dato naturalistico che il ragno si nutre di mosche e che, allo stesso modo, le larve fameliche di questi insetti divorano le carcasse degli aracnidi carnosi che abbondano nella foresta dell’isola. Ulteriore traccia di un passato improntato alla pratica del cannibalismo la si ritroverebbe nel nome stesso attribuito dai contendenti in lizza alla grande tela dipinta, la cui traduzione, pur nelle diversità degli idiomi, è ”cadavere squisito” (la tela dipinta sarebbe una sorta di sopravvivenza, l’evoluzione della tovaglia macchiata un tempo utilizzata per consumare questo pasto contro natura). Non entreremo nel merito di una questione cui abbiamo fatto cenno solo per dovere di cronaca.

La cosa che maggiormente colpisce di questo caso etnografico più unico che raro è come ciascuna cultura, pur partecipando ad una pratica condivisa, rituale o ludica che la si voglia considerare, la faccia sua inserendola in una visione del mondo che potremmo dire incommensurabile a quella dell’avversario; i gruppi, cioè, pur giocando allo ”stesso” gioco, lo interpretano ognuno alla sua maniera, includendolo nel proprio sistema di credenze, in modo tanto coerente da risultare, questa presenza, funzionale, fuor di ogni ragionevole dubbio, al rafforzamento delle singole identità contrapposte.

In realtà, è stato fatto notare che se messe a ”sistema” le diversità relative allo stile, alle credenze, ecc. (che taluni fanno dipendere dalle forme di sussistenza degli uni e degli altri, cacciatori e raccoglitori di Acta, agricoltori mobili i Reacta) sarebbero tali che basterebbe conoscere un tratto nella cultura di un gruppo per ipotizzare, senza tema di allontanarsi troppo dal vero, il suo corrispettivo per opposizione nella cultura del gruppo antagonista.

Veniamo alla ”disfida” che ogni anno ha luogo all’ombra delle possenti piante di ficus e che precede, sancendone l’arrivo, la stagione delle piogge. La preparazione del grande foglio di corteccia battuta spetta alternativamente ad Acta e Reacta. I fogli più piccoli sono invece realizzati da entrambi i gruppi e offrono supporti preziosi a quella galassia di tornei minori che si disputano in parallelo e a conclusione della contesa principale. Pare che, oltre a permettere ai più giovani di esercitarsi, allargare la partecipazione ludica a tutti coloro che lo desiderano, non soddisfatti i più di guardare e incitare la propria squadra, abbia la funzione di creare un ”diversivo”, allentando la tensione che se fosse tutta concentrata sulla vittoria o la sconfitta della partita condotta dai fuoriclasse rischierebbe di innescare gli scontri che di fatto il gioco intende scongiurare. La presenza di così tante partite garantisce di fatto una sostanziale condizione di parità, e tutti al termine della festa possono tornarsene alla propria capanna soddisfatti del risultato, almeno da quello conseguito dal gruppo. Vale la pena ricordare che la fierezza è un tratto caratteriale che accomuna Acta e Reacta, al punto che una débâcle, se avvertita come tale risulterebbe insostenibile, generando reazioni aggressive o autolesioniste nel perdente.

La descrizione che segue è una sintesi di quanto riportato dalle fonti etnografiche che, a differenza di quelle interpretative, risultano sostanzialmente allineate nella descrizione dei fatti (ad eccezione di una di cui parleremo più avanti).

Il ”campo di gioco” è scelto in un’area vicino al fiume, ripulita dalla vegetazione bassa per accogliere i grandi fogli che per il tempo della festa saranno distesi a terra, collocati il più possibile su un terreno pianeggiante, condizione necessaria per controllare l’andamento del colore che altrimenti procederebbe in maniera indipendente dai desiderata del sacro pittore. Il caso e l’imprevisto, che pure giocano una parte nel risultato finale, soprattutto tra gli artisti dell’etnia Acta che seguono la “via della mosca”, gestuale e veloce, non viene preso in considerazione dagli attori, per i quali ogni segno è il prodotto di un preciso atto di volontà, umano e divino. Anche quando – non di rado – il performer-mosca, tra un volteggio e l’altro, cade rovinosamente sulla tela con tutti i suoi barattoli di colore, il coro che si alza unanime tra i suoi sostenitori suona comunque come una laudatio indirizzata all’artista e allo tempo stesso al suo spirito guida, concetti che qui elenchiamo come distinti ma che tali non sono nella visione del mondo di questi due popoli.

La battaglia che si svolge ogni volta sulla tela, la principale – quella che poi sarà custodita come trofeo dal vincitore – come pure sulle più piccole, potrebbe essere descritta come una guerra di paradigmi. Ad ogni gesto libero, continuo, irruento, vitale, caotico, dinamico, rapido, ad opera del pittore-mosca segue la risposta capillare, minuta, ripetuta, interstiziale, arginante, neghentropica dell’artista-formica (che non di rado si presenta in ”squadra”). Le performance dei pittori Acta assumono spesso un andamento danzato, e sono accompagnate dal sibilo crescente dei ronzatori, che col loro vorticare incoraggiano, al punto che sembrano quasi generarle, le piroette centripete degli artisti, il cui passaggio è seguito da una scia di colore colato e schizzato che spetterà alla squadra delle formiche riportare all’odine, ingabbiandolo nelle fitte trame che caratterizzano i suoi pattern. Gli Acta non utilizzano strumenti per dipingere, limitandosi a versare direttamente sulla tela i loro colori scuri e resinosi che ricavano, con ricetta nota solo agli iniziati, dalla corteccia pestata di alberi e liane. Una tecnica ricevuta in sogno dall’antenato mitico, l’eroe culturale dotato di ali che per primo avrebbe inventato la pittura, quale dono dell’Essere Supremo. I Reacta invece stendono il colore utilizzando tutta una gamma di bacchette sottili ricavate da canne di bamboo, legno o osso, le stesse bacchette che ritmicamente battono una contro l’altra quando all’opera sono i pittori-formica.

I risultati di questi incontri sfiancanti, che si succedono senza sosta per tre giorni, raramente sono causa di discussione, essendo il risultato della sfida “evidente” a tutti i partecipanti, che sanno a colpo d’occhio giudicare se la partita si è conclusa con la vittoria degli uni sugli altri o con un pareggio, caso molto frequente dettato dal sostanziale equilibrio tra le due forze in atto.

E qui si apre una questione che vorremmo lanciare come ipotesi di ricerca. Ipotesi che nasce e si costruisce a partire da una testimonianza isolata, ma a nostro avviso molto attendibile, secondo la quale si darebbe il caso di artisti-mosca passati nelle file delle formiche e casi analoghi di pittori-formiche a cui – per dirla con l’espressione registrata dalla fonte citata – ”sarebbero spuntate le ali”, passati, cioè, ad una pratica artistica improntata ai dettami della ”via della mosca”. Se questo fosse vero, e spingerei i ricercatori sul campo a dirimere la questione, tutto quello che si è detto e scritto su Acta e Reacta sino ad ora andrebbe radicalmente rivisto. Non sarebbe infatti possibile, una volta acquisito questo dato, ipotizzare che in luogo di due popoli distinti, ci si trovi di fronte a due facce di una stessa società che ami rappresentarsi come dualistica (magari in ragione di una originaria divisione per metà esogamiche) in tutti i suoi aspetti, da quelli economico-produttivi a quelli artistici e rituali? A ben vedere, infatti, agricoltura mobile e caccia e raccolta sono pratiche che in molti popoli convivono, prevalendo ora l’una ora l’altra in ragione della stagione e delle condizioni climatiche. L’ipotesi che i due popoli siano in realtà uno solo resta affascinante, anche se tutta da verificare.

 

 

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