Parla Fabrizio Russo

Roma

Il mercato dell’arte italiano, rispetto a quelli internazionali, sembra essere stato caratterizzato da alcuni elementi di ”debolezza”. In particolare, da più parti si ritiene che il meccanismo della notifica – introdotto da una delle Leggi Bottai, la 1.089 del 1939, mantenuto dal Codice dei Beni Culturali (D. Lgs 42 del 22 gennaio 2004) e oggi abrogato – abbia fortemente penalizzato il sistema delle vendite e contribuito a rendere fragile il nostro mercato. In cosa consiste esattamente il meccanismo della notifica e quali prospettive si aprono ora con la sua radicale modifica? «La legge sulla notifica dei Beni Culturali, a mio avviso sacrosanta, è nata nel 1939 a tutela delle opere eseguite più di cinquanta anni prima: all’epoca prima del 1889, oggi include tutte le opere eseguite prima del 1966! Al di là di ogni riflessione e comprensibile allarmismo di enti interessati – un allarmismo, credetemi, assolutamente insensato – una revisione della norma renderà possibile non solo il ritorno sui mercati internazionali di moltissimi operatori di mercato onesti, semplicemente terrorizzati dal presentare alle Soprintendenze richieste di esportazioni, ma anche innumerevoli collezionisti stranieri, che investiranno nuovamente sul periodo storico interessato alla riforma generando un deciso rialzo del mercato».

Come si caratterizza il panorama delle gallerie di arte moderna e contemporanea sia a Roma che al livello nazionale? «Osservando la presenza sul territorio delle gallerie nel 2007, anno precedente all’inizio della grande crisi, sul territorio nazionale ed in particolare a Roma, si noterà una diminuzione fra il 60 ed il 70% degli operatori di mercato. La cosa, a mio avviso, più grave è che in questo significativo e preoccupante numero di chiusure, la maggior parte è riconducibile a Gallerie che si occupavano di arte contemporanea. Ora, considerando il tempo minimo per ricostruire un tessuto di mercato sufficiente di almeno 15 anni, ciò significa che nel futuro si registrerà un vuoto di ricerca artistica sul territorio di uguale periodo. Inoltre oggi esiste una condizione di oligopolio di poche realtà, costituite da Gallerie Private e, soprattutto, imprenditori di altri settori, che condizionano il mercato con operazioni meramente speculative, guarda caso con opere con meno di cinquant’anni di vita quindi non notificabili da parte dello Stato Italiano e, dunque, libere di circolare nel mondo. Una situazione pericolosa per la tranquillità e la trasparenza del mercato. Quello che sarebbe auspicabile è una situazione di maggiore frammentazione del mercato: sarebbe indubbiamente più sana, perché caratterizzata da maggiore concorrenza».

Da Nord a Sud Italia, qual è il clima culturale che si respira in Italia visto con l’occhio di un gallerista? «La barbarie sta risalendo lo Stivale. A mio modesto avviso, le cause di questa situazione di generale impoverimento culturale sono molte, mi rincresce dover affermare che probabilmente una di queste motivazioni nasce dalla fusione di molti Istituti di credito che ha portato le rispettive dirigenze e i loro interessi a spostarsi a Nord (si pensi a quanto accaduto con l’assorbimento del Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banco di Roma etc. in Unicredit Bank), privando moltissimi territori di quell’attenzione da parte degli stessi Istituti, fondamentale per la crescita lavorativa quindi culturale degli stessi».

Nel 2015 la sua galleria ha organizzato la collettiva Linee di Confine – la natura, il corpo, le città che si è tenuta al Museo Carlo Bilotti dal 24 aprile al 21 giugno e Mario Sironi e le illustrazioni per il Popolo d’Italia 1921-1940 che si è tenuta ai Musei di Villa Torlonia – Casino dei Principi e Casino Nobile dal 24 ottobre 2015 al 10 gennaio di quest’anno. Si è trattato di due importanti appuntamenti della stagione museale romana in due spazi pubblici, con i quali un operatore privato del mercato ha finito quasi per ricoprire un ruolo pubblico nelle politiche di promozione culturale della città. Come è stata la collaborazione con le istituzioni pubbliche in questo contesto? In generale, quale è il livello di sensibilità che ha riscontrato nelle amministrazioni pubbliche? «Purtroppo debbo rilevare che a fronte di tantissime personalità con le quali ci siamo confrontati, pronte ed entusiaste nel cercare di contribuire a realizzare una reale collaborazione per un nobile obbiettivo, ho dovuto registrare altrettante anime sostanzialmente disinteressate al loro lavoro. Si sta affermando una sciatteria culturale intollerabile, soprattutto per la capitale d’Italia, che investe in realtà tutti i settori: si tratta di una sorta di nuovo cromosoma culturale negativo, al quale non bisogna arrendersi. A questo si somma la desolante immagine dell’amministratore pubblico che si è affermata con le vicende degli ultimi anni. Il buon amministratore non deve solo gestire la cosa pubblica, ma dovrebbe anche rappresentare un archetipo comportamentale, al quale la cittadinanza si dovrebbe, inevitabilmente riferire. Va menzionato, però il ruolo importante che in questo periodo sta ricoprendo il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che sta indubbiamente lavorando ad un significativo cambiamento. Sarà un cammino lungo ed i frutti si vedranno nel tempo, ma i grandi viaggi iniziano da piccoli passi, ed ho la sensazione che i primi sono già alle spalle».

Quale ruolo ricoprono invece le istituzioni museali rispetto all’arte contemporanea nella città di Roma? «Una per tutte: a Roma esiste un museo comunale dell’arte contemporanea, il Macro, che, essendo tale, dovrebbe, a mio avviso, occuparsi anche di artisti che insistono sul territorio di competenza ed una volta almeno ogni due anni dovrebbe svolgere una missione di ricognizione generale di quel che accade in città. Vanno benissimo, infatti, eventi dedicati ad artisti internazionali, ma il rischio è quello di creare una programmazione da Macro: due grandi musei dedicati all’arte contemporanea a Roma sarebbero appena sufficienti, ma allora si avesse il coraggio di cambiare il nome del Museo».

Quale è oggi il ruolo della pittura nel mercato dell’arte contemporanea? «Il ruolo della pittura è, a mio avviso, ancora essenziale. Oggi i linguaggi artistici sono molto diversi rispetto a settant’anni fa, ma molto molto simili a quelli di cinquant’anni fa. Penso alle istallazioni luminose di Merz piuttosto che di Dan Flavin piuttosto che ai video di De Dominicis, degli anni Sessanta. Le provocazioni di allora sono sostanzialmente uguali a quelle che oggi vengono proposte come di assoluta rottura. All’epoca vi era anche molta pittura che veniva considerata ancora l’asse portante di una proposta culturale generale, mentre le provocazioni, allora realmente tali, erano una sorta di fuga in avanti: si ricordi l’occupazione di protesta della scalinata della Gnam nel 1971 a seguito della mostra dedicata a Piero Manzoni ed alle sue Merde d’Artista. Credo che oggi, la vera provocazione, sia un ritorno alla pittura e quindi al confronto diretto con assoluti giganti del secolo precedente. Questa situazione si riflette, purtroppo, anche nei concorsi per gli artisti contemporanei, nei quali si invita solo un certo tipo di critici. Anche in questo caso si crea purtroppo una situazione ghettizzante per chi fa pittura».