Maïmouna Guerresi, artista Italo Senegalese, inizia la sua attività artistica inserendosi nella parte finale del movimento della body-art. La questione del corpo, specialmente quello della donna, diventa così da subito un elemento centrale della sua ricerca che si muove liberamente tra la fotografia, il video, la scultura e l’installazione. Nel 1991, successivamente ai suoi viaggi nell’Africa musulmana e all’incontro con la cultura Sufi della comunità Senegalese, acquisisce una nuova identità con il nome di Maïmouna. Tale evento determina un’evoluzione nella sua ricerca e nel suo immaginario che inizia presto ad assimilare e rielaborare l’iconografia, i simboli e le suggestioni che una conoscenza sempre più approfondita della cultura islamica le propone. L’artista in mostra fino al 23 gennaio nella galleria Matèria, incontrerà il pubblico nello stesso spazio il 18 dicembre a partire dalle 18:00.
Che ruolo ha il viaggio, inteso come nomadismo, all’interno della tua ricerca?
«Mi muovo molto per lavoro, i miei viaggi sono principalmente di natura interiore. Emozioni e stati d’animo che io chiamo aḥwāl – un termine utilizzato nella mistica islamica, che descrive un momento di chiarezza e di illuminazione determinato dalla continua recitazione di preghiere – si traducono nei miei lavori in personaggi, colori, oggetti e interventi estetici. Il mio nomadismo si concentra in questo».
L’analisi del corpo è da sempre al centro della tua ricerca. Come si è evoluta nel corso degli anni la tua concezione del corpo? In più occasioni parli del corpo come luogo sacro.
«Nei primi lavori mi identificavo con i personaggi della mitologia greca, in particolare con il mito di Dafne e la sua trasformazione in albero, dalla quale ho tratto il tema della mimesis come strumento di difesa. L’albero in particolare, come simbolo di medium tra cielo e terra, è divenuto l’oggetto sul quale ho sviluppato la serie Mimesis. In termini personali m’identificavo con questi simboli e quindi con Dafne, una vicinanza simbolica con il cosmo. Il tema della trasformazione si è evoluto successivamente con l’approfondimento di ulteriori linguaggi artistici, tra cui la scultura con l’utilizzo del calco inteso come corteccia e crisalide, l’emblema della trasformazione e del mutamento continuo. Nei lavori più recenti la corteccia si è sviluppata nel simbolo estetico del velo, che ripeto frequentemente nei miei lavori quasi come una preghiera taumaturgica».
Chi sono le persone che ritrai nelle tue immagini e nei tuoi video? E quale tipo di relazione ti lega a loro?
«Ciò che mi interessa rappresentare dei personaggi nelle mie opere è la loro grandezza spirituale, non la loro fisionomia, pertanto fotografo amici e parenti, quasi come un prolungamento del mio spirito e corpo, ai quali faccio indossare dei manti architettonici che permettono di intravedere le loro forme, lasciando il corpo vuoto mentre il volto rimane visibile».
Potresti raccontarci il processo che c’è dietro la nascita di una delle tue opere?
«L’idea nasce da un’emozione, da un sentimento, da un colore o da un’immagine; può nascere sfogliando un libro su Piero della Francesca o guardando Inside Art, per dire… Per quanto riguarda la realizzazione delle immagini fotografiche lavoro molto all’esterno invece che in studio. Sia in Italia che in Africa quando ho un’idea preparo una messa in scena, dipingo i muri utilizzando materiali e pigmenti facendoli quindi diventare fondali, creo abiti per i miei personaggi e inserisco gli oggetti scelti; scritte e invocazioni vengono applicate alla superficie del fondale completando infine il set».
Il rosso, il nero e il bianco sono tre colori che appaiono in modo piuttosto ricorrente nelle tue immagini, nell’arte del ’900 sono spesso utilizzati per veicolare contenuti politici. Che significati assumono all’interno del tuo lavoro?
«Utilizzo spesso dei colori che trovo interessanti per la mia ricerca. Il video dal titolo Oracle, presenta tre figure femminile che indossano ognuna un colore diverso, gli stessi che tu hai elencato. Queste tre immagini inters cambiandosi diventano un colore unico. Il nero in questo caso l’ho rappresentato con un vestito conico visto dall’alto. La figura vestita di rosso è intenta a girare su se stessa, allargando le braccia, una rivolta verso il cielo e l’altra verso la terra in una simbolica preghiera Sufi. Il bianco lo troviamo invece nella colata di latte, che segna il volto della fanciulla vestita di bianco. L’elemento del latte che io uso anche fisicamente all’interno dei miei lavori installativi, come per esempio Milky Light, in diverse culture africane e asiatiche è un simbolo di purificazione e di primo sacrificio».
Il 12 novembre ha inaugurato Talwin la tua nuova mostra alla galleria Matèria di Roma. Puoi raccontarci questo progetto?
«Talwin è un termine arabo che per la mistica Islamica significa cambiamento e mutazione. Per i sufi è uno degli ultimi stadi dell’essere verso la conoscenza. M’interessa esprimere la trasformazione e il cambiamento attraverso una concezione metafisica e mimetica di un’apparente immobilità delle cose e dei personaggi rappresentati, i quali assumono posizioni ieratiche e statuarie. Sembrano inoltre racchiudere lo stato e la dicotomia tra cambiamento e staticità. La mimesis dei personaggi e degli oggetti racchiudono in sé il meccanismo di difesa ma anche quello di un possibile attacco».
Come si sviluppa il percorso?
«La mostra è divisa in due spazi attigui nei quali troviamo varie opere tra cui Mimetic Landscape, Aisha, Tools, White Qulla, Sabbat, Red Qubba and Ulba.
Nella prima sala è esposto, Students and Teacher, un grande polittico composto da cinque pannelli; l’opera realizzata nel 2012 fa parte di una serie di lavori dove analizzo il rapporto tra isolamento e aggregazione attraverso l’incontro a tavola. I personaggi sono fotografati separatamente e poi messi insieme come in un banchetto. I vestiti colorati, le tovaglie e i fondali dipinti fanno parte di questo atto silenzioso di sospensione metafisica, di qualcosa che sta per accadere, di un possibile dialogo e altre infinite interpretazione. Sulla parete di fronte al polittico un monitor trasmette in loop il video Akfa 0, anche qui appare una tavola coperta da una tovaglia rossa con sopra un secchio nero contenente del latte, mentre sul muro che ne fa da sfondo sono presenti dei nomi femminili scritti in arabo. Qui appare tutto tranquillo, fino a quando un’ evento inaspettato non stravolge la scena, cambiando tutto».
Fino al 23 gennaio; Matèria, via Tiurtina 149, Roma; info: www.materiagallery.com