Le storie di Gabriele Stabile

Roma

Refugee hotel è un lavoro evocativo, intimo e toccante. L’artista Gabriele Stabile non vuole sentir parlare di fotogiornalismo, ma di una vicinanza alle persone che ha a che fare solo con ”emozioni di pancia” e con la voglia di raccontare la loro quotidianità. Un progetto fotografico che attinge alla tradizione statunitense di Winogrand, Frank e anche quel taglio un po’apparentemente casuale di Gordon Parks. L’artista fino al 28 settembre espone il progetto al museo di Trastevere, ma nei prossimi tempi ha in programma nuove tappe artistiche, tra cui una sua personale, il prossimo anno, alla White Noise gallery di Roma (www.whitenoisegallery.it).

Come hai iniziato a lavorare a Refugee hotel? «Stavo già collaborando con il New York Times e sul giornale avevo letto la storia dei rifugiati che arrivano negli alberghi vicini agli aeroporti. Ma era un racconto incentrato sul valore umanitario di chi lavora in questi hotel: veniva descritto il sistema in cui solitamente viene promossa una colletta e una raccolta di vestiti di prima necessità per i rifugiati che giungono negli USA praticamente con niente. Questi racconti possono essere storie bellissime, letterariamente, ma che non si traducono per forza in immagini».

E invece a te cosa interessava? «Il valore di questo lavoro è l’incontro tra gli immigrati che arrivano da realtà disparate sia geograficamente che dal punto di vista culturale e che entrano in quella specie di scatola che è l’hotel contenente quelli che secondo me sono gli elementi base di una società, del nostro vivere quotidiano: il letto, il frigorifero, la doccia, la macchinetta del caffè, la televisione».

Refugee hotel non è un lavoro di denuncia o dal valore critico, ma prevale più la valenza poetica. «Io non ce l’ho dentro di me il valore della critica. La fotografia è meravigliosa nella sua ambiguità, se tu la forzi, se tu la vuoi collegare forzatamente all’attualità scegli di rovinarne il potenziale evocativo. Mi piace lasciare che lo spettatore davanti alla fotografia si perda nell’immaginare ciò che può rappresentare quell’immagine per lui».

Questa tua personale interpretazione della fotografia può essere ricondotta al tuo crescere come fotografo negli USA? «Assolutamente sì. I fotografi italiani sono molto più ideologici. C’è un radicalismo sulla fotografia militante che secondo me è sbagliato. Un fotografo che si occupa di reportage a prescindere dal suo approccio dovrebbe sempre essere dalla parte dei perdenti perchè è lì che ci sono più occasioni di incontrare una manifestazione umana».

Ma non dovrebbe esserci un approccio più oggettivo da parte di un fotogiornalista volto a documentare una situazione? «Secondo me è una fantasia. Nelle situazioni di guerriglia, e non solo, non puoi rimanere distaccato. In Italia persiste molto questa ipocrisia del fotogiornalista distaccato ma non può essere così. Il fatto di essere dalla parte dei perdenti negli Stati Uniti è piuttosto politically uncorrect, ma è lì che c’è il dramma, è lì che inizia la dinamica che sviluppa una storia. Un fotografo prova a sviluppare un racconto seguendo con integrità quelli che sono i propri tempi drammatici. Si struttura una storia in base a come la si vuole trasmettere e questo deve essere fatto in autonomia creativa, non può essere fatto in base a uno stimolo esterno come un giornale».

Lavori meglio quando sei libero da commissioni? «La commissione influenza ovviamente ideologicamente il tuo lavoro».

Per Refugge hotel come è stato il primo approccio con i rifugiati? «Il primo approccio è andato malissimo perchè mi hanno subito cacciato dall’hotel, poi uno degli autisti che conduce negli alberghi i rifugiati quando arrivano mi ha suggerito di parlare con quelli dell’organizzazione che gestisce tutto. E così ho fatto. Ho iniziato dall’albergo vicino al JFK, ma lì non ho potuto fare molto perchè mi hanno mandato via troppe volte dall’hotel e ormai ero bollato, così ho deciso di spostarmi a Chicago, a Los Angeles, a Miami. Ho preso contatti con l’Organizzazione internazionale delle migrazioni e gli ho subito detto ”io non ho intenzione di fare foto di persone contente che decidono di venire in America né farò foto di gente che si abbraccia piangente all’aeroporto. Il mio non sarà un lavoro di cronaca. Vi interessa?” e loro mi hanno risposto di no però ma mi hanno lasciato aperte le porte per portare avanti lo stesso questo progetto. Io poi mi sono dato subito da fare al di là del lavoro fotografico aiutando anche nella pratica l’organizzazione e sporcandomi le mani e questo è una cosa che penso abbiano apprezzato molto e credo sia uno dei motivi per cui mi hanno lasciato lavorare indisturbato».

Questo è stato l’approccio con l’Organizzazione, ma con i rifugiati poi come è stato l’incontro? «Con loro non ho mai avuto grossi problemi. Ti rendi conto subito di chi ha voglia di raccontarsi e chi invece non ha intenzione di stabilire un rapporto. Le foto di Refugee Hotel sono molto intime e quindi c’è bisogno di una certa vicinanza, e questa vicinanza si crea solo se la persona percepisce l’interesse genuino per la sua storia, per cui ho ascoltato molto e aspettato altrettanto tempo. Il mio intento era quello di mettere insieme una storia fatta di emozioni».

Il fatto di seguire le persone anche dopo la sosta negli alberghi l’hai pensato nel mentre o è venuto dopo? «I primi quattro anni li ho passati a fotografare la prima notte negli alberghi. Contemporaneamente stavo lavorando anche ad altri progetti e collaborando con diverse riviste. Stavo lavorando a un’inchiesta specifica su un fiumiciattolo che separa Brooklyn dal Queens, inquinato dagli scarichi delle fabbriche vicine, una vicenda collegata alla morte di cancro di molte persone dei dintorni. Ma non riuscivo a trovare nessuno che ne volesse parlare e allora mi sono rivolto al giornale locale, il Greenpoint Gazette e lì ho conosciuto Juliette, il caporedattore. Ma nemmeno con lei siamo riusciti a tirarne fuori altro materiale e un giorno mi ha chiesto se stavo lavorando ad altro e io le ho parlato del lavoro sui rifugiati e così con lei abbiamo cominciato a trovare le tracce di chi avevo fotografato anni prima durante le prime notte negli alberghi. In effetti ho capito anch’io poi che poteva essere molto interessante un approfondimento su come stavano diventando americani i rifugiati e così siamo partiti».

E la differenziazione tra bianco e nero e colore è motivata da questo gap temporale? «La seconda parte, il seguire i rifugiati nel loro viaggio inegli Stati Uniti l’ho iniziata a colori, poi però mi sono reso conto che il b/n dava più la sensazione di fotografia di viaggio come insegna la tradizione fotografica americana. Le stanze invece degli alberghi andavano fatte a colori, perchè le varietà tonali erano basilari da manifestare e il colore aiutava a portare parte del significato della foto. La monotonia del cromatismo era il valore aggiunto e soprattutto conformava il fatto di un lavoro fatto nello stesso ambiente. Invece poi quando sono uscito fuori e gli USA ti esplodono in faccia è difficile far rimanere questa uniformità tonale e così il b/n mi ha aiutato anche in questo, cioè nel creare dei denominatori comune che mettessero in rilievo più che altro l’emozione».

Negli esterni hai un taglio molto da street photography. Un’inquadratura che sembra apparentemente casuale. «Si infatti sto lavorando ora ad un progetto di street photograhy e penso che sia uno stile che ha influenzato molto anche Refugee Hotel».

Info: www.museodiromaintrastevere.it

 

 

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